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"Gli accademici temono la cultura popolare"

L'autore parteciperà al Festival della Bellezza "L'orgoglio? Ho sentito tutti cantare i miei testi"

"Gli accademici temono la cultura popolare"

Ma guai a chiamarlo paroliere. Per uno che da sessant'anni trova le parole giuste è quasi un'offesa. «I parolieri sono quelli che fanno la Settimana Enigmistica» scherza Giulio Rapetti Mogol alla vigilia dei suoi 84 anni (li compie il 17 agosto). È in auto, direzione Otranto, «dove c'è ancora la mia vecchia barca, voglio stare un po' in mare». Poi l'11 settembre sarà in cartellone con Bennato, Sgarbi/Morgan, Bollani, Cacciari ed altri, al Festival della Bellezza nell'Arena di Verona a parlare di eros e bellezza. «Che cos'è la bellezza? Chissà - dice - è un concetto molto vago. Di sicuro la cultura è bellezza». Di cultura popolare Mogol può parlare come pochi altri: la conosce, l'ha aiutata a crescere, è testimone del cambiamento. Ci sono parole come «uggiosa» che sono diventate popolari grazie a lui, che si preoccupava della cultura popolare quando altri erano più preoccupati dalla cultura di partito. «Se tra cinquant'anni si parlerà ancora di me, vorrà dire che ho fatto bene», spiega con la sua voce acuta.

Eppure a qualcuno la cultura non piace, se è popolare.

«Ricordo sempre che il primo personaggio a occuparsi di cultura popolare è stato Dante Alighieri all'inizio del Milletrecento nel De vulgari eloquentia... La cultura popolare non è di serie B».

Dopo 700 anni c'è ancora diffidenza. Patrizia Valduga sul Fatto ha appena scritto di populismo culturale.

«L'importante è chiedersi se l'opera ti dà emozioni oppure no. Tra gli accademici, nel mondo confortevole dell'accademia, ci sono altre misure di paragone. Il Foscolo, se lo reciti, non ti dà le stesse emozioni che ti dà se lo leggi. Dante e Shakespeare sì. Ma Shakespeare faceva teatro per strada con il carretto, Carlo Goldoni sulla sua barchetta. Avevano un fortissimo contatto con la gente eppure erano colti e ispirati».

Fabio Caon, docente di didattica delle lingue all'Università Ca' Foscari di Venezia ha scritto L'italiano parla Mogol: imparare l'italiano attraverso i testi delle sue canzoni.

«Anche Vittorio Sgarbi o Michelangelo Pistoletto hanno detto bene dei miei testi. C'è da arrossire. Ma la cosa di cui sono più orgoglioso è che in questi decenni ho sentito cantare le mie canzoni da tutti, dai grandi e dai bambini, da uomini, donne, stranieri, italiani, tutti. Dicevano che i miei brani con Battisti erano fascisti, ma poi i nostri dischi sono stati ritrovati nel covo delle Brigate Rosse in via Gradoli al tempo del sequestro Moro. Io sono contento di aver scritto per tutti e di essere stato capito da tutti».

Oggi come sta la canzone?

«Ogni tempo ha le proprie canzoni. In questa fase mi sembra più che altro che la maggioranza sia composta da canzoni scritte da giovani per giovanissimi. Così si restringe molto l'orizzonte di gradimento».

Ossia?

«A me sembra che abbiano una portata limitata, non vanno oltre una certa età. Piacciono a tantissimi in certe fasce anagrafiche, ma sono quasi sconosciute a tutte le altre. Paradossalmente diventano di nicchia, per lo meno dal punto di vista anagrafico. Credo che una volta fosse diverso, forse perché il linguaggio era meno settoriale e quindi comprensibile a diverse fasce di età».

Quando ha incontrato Lucio Battisti per la prima volta, non era entusiasta.

«Me lo presentò una mia amica che cercava talenti da lanciare in Francia. Sono stato sincero e dissi a Lucio che non mi aveva colpito molto. Lui mi ha risposto: Lo so. Allora, più per compiacere la mia amica che perché avessi intravisto del talento in Lucio, l'ho invitato un'altra volta da me. In un colpo solo abbiamo scritto tre pezzi: Dolce di giorno, Per una lira e 29 settembre. Era venuta fuori l'alchimia».

Sono cinquant'anni esatti dalla vostra cavalcata da Milano a Roma.

«Sa che voglio rifare un'altra cavalcata, anzi una passeggiata a cavallo? Stavolta con Terence Hill. Attraverseremo l'Umbria».

Ma cavalli ne ha ancora?

«Sono sempre stati una mia grande passione. Ne avevo 28. Però mia moglie a un certo punto me li ha venduti quasi tutti».

Perché?

«Diceva che costavano troppo. In fondo non aveva tutti i torti. Però qualcuno ce l'ho ancora»

Mogol presidente Siae.

«Non volevo, mi hanno candidato quasi a forza. Oggi la nostra battaglia sui diritti d'autore è fondamentale per la sopravvivenza di circa 90mila autori. Non siamo più ai tempi del mecenate che paga il musicante, oggi si rischia davvero di morire di fame. Oggi bisogna applicare anche in Italia la direttiva europea votata a grande maggioranza un anno fa e non ancora accolta in modo completo dal nostro ordinamento. E non è una questione politica».

E che cos'è?

«È una questione di coscienza. Difatti in Parlamento della legge sul copyright si stanno occupando il senatore Pittella del Pd e La Russa di Fratelli d'Italia. Un impegno bipartizan. D'altronde ho sempre pensato che certe cose vadano oltre la classificazione politica. Se uno è un cretino, può essere un cretino di destra oppure di sinistra, indifferentemente».

Al Festival della Bellezza incrocerà anche Morgan.

«Un bassista, pianista e compositore che fa onore al nome d'arte che si è scelto, così avventuroso...».

Mogol, anche la sua storia è Un'avventura (citazione scontata del brano che Battisti portò a Sanremo nel 1969).

«Lo sa che le canzoni con i miei testi hanno venduto complessivamente 523 milioni di copie nel mondo? Me lo ha confermato proprio la Siae. Ma il dato è dell'anno scorso, adesso magari c'è qualche copia in più...».

E sorride.

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