In che mani eravamo. Mani che maneggiavano i bottoni del potere, mani che però non sapevano quali pulsanti premere. Presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, pezzi importantissimi della magistratura e delle istituzioni. La parata dei potenti. Erano lo Stato, il volto della Repubblica, ma in quei mesi cupi e terribili, quelli delle stragi del 92-93, non furono in grado di padroneggiare la difficile situazione. Il carosello delle supposizioni, balbettii, il dito puntato nel buio. Ma loro, gli alti papaveri, cerano? Non cerano? Sì che cerano, incollati sulle poltrone più importanti, ma per come ce la raccontano oggi erano spettatori, più o meno come quelli che sulla panchina al parco, magari con gelato in mano o il nipotino da controllare, assistono impotenti a uno stupro o a un delitto.
Carlo Azeglio Ciampi rievoca la notte del 27 luglio 93, le bombe e a Repubblica confida: «Ebbi paura che fossimo ad un passo da un colpo di Stato». È sempre stato così: quando gli eventi prendono un piega sinistra, parte della classe dirigente italiana pensa al golpe. Anzi, ai golpe, mai avvenuti ma continuamente evocati. È un riflesso pavloviano. È un alibi. È una risposta per tutte le stagioni, come la pizza. Certo, quel 27 luglio resta una giornata pesantissima per le democrazia italiana.
Ma che fa quella notte il capo del Governo, da cui pure dipendono il Ministero dellInterno, le forze di polizia, gli 007, lesercito? È Ciampi stesso a dircelo: «Corsi come un pazzo in macchina e mi precipitai a Roma». Riunioni su riunioni fino allalba, ordini su ordini nel panico generale. E poi? «Il golpe non ci fu». Per fortuna. Ma Ciampi attraversa quelle ore drammatiche come la comparsa impotente di uno spettacolo incomprensibile.
Chi tramava contro lo Stato? La risposta che ancora oggi, diciassette anni dopo, il presidente emerito dà, è sconcertante e insieme vaga come la nuvola che allora avvolse le istituzioni: furono stragi di «un antistato». Che, a quanto pare, si annidava dentro lo Stato, i cui vertici non sapevano nulla.
Cè da rimanere allibiti. È da ringraziare il nostro stellone. Ci è andata bene. «Ricordo al telefonata con il Presidente Ciampi - racconta Oscar Luigi Scalfaro - ero a casa con mia figlia Marianna, vennero a bussare alla porta a notte fonda lallora segretario generale al Quirinale Gaetano Gifuni e il capo della sicurezza, il prefetto Iannelli». Per la cronaca Scalfaro ricopriva il modesto ruolo di capo dello Stato, era stato ministro dellInterno ed era arrivato al Quirinale subito dopo lattentato di Capaci e la morte di Falcone.
Scalfaro era un politico navigatissimo, dal primo dopoguerra frequentava il Palazzo e conosceva a fondo gli apparati della Repubblica. Ma la sua analisi non va oltre il proprio naso. E il famoso proclama: «non ci sto», a proposito dei presunti fondi neri a disposizione del Viminale. «Dissi: Prima si è tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali». Ma il «non ci sto» ripetuto come un mantra, a chi era diretto? Chi era il nemico? Chi tramava, a parte e oltre i mafiosi di Cosa nostra? Scalfaro non lo sa, Ciampi non ha alcuna idea, i magistrati che da sempre scavano sulla nascita della seconda Repubblica si limitano a formulare teoremi. Buio. Buio fitto. Mistero.
Pier Luigi Vigna che allora era il procuratore capo di Firenze, città sfregiata dallondata stragista, offre una sola certezza: «Cosa nostra non si è mossa da sola». Punto. Oltre non si va, se non al traino di riflessioni da nouvelle vague giudiziaria: «Cerano pezzi dei servizi che ragionavano ancora come se il Muro di Berlino non fosse crollato». Eppure i Vigna e i Caselli e i Grasso che allora come oggi ci parlavano di entità, di spezzoni dei servizi, deviati per definizione, di contiguità, di zone dombra e di sospette coincidenze, erano pubblici ministeri potenti, a capo di procure e apparati investigativi chiamati proprio a far luce sulle pagine oscure.
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