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Addio Cameroni il Mago del baseball Vinse due scudetti senza sconfitte

Si è spento a Magenta, a 74 anni era ancora sui «diamanti», allenava in serie C a Genova. Fece grande l’Europhon a Milano, eroiche le sfide con Nettuno

Elia Pagnoni

Non è stato il più grande giocatore del baseball italiano. Forse non è stato nemmeno il più grande allenatore. Eppure Gigi Cameroni era il baseball italiano. Nel senso che di tutti i personaggi che hanno calcato i nostri campi, il Gigi è stato il più conosciuto, l’unico capace di conquistare anche il pubblico fuori dai diamanti. Più di Glorioso, di Castelli, di Bianchi, Gigi Cameroni ha saputo ritagliarsi una sua popolarità, soprattutto negli anni Sessanta, quando dominò in Italia e in Europa alla guida dell’Europhon Milano, lo squadrone che riuscì a portare il baseball anche sulle prime pagine dei quotidiani sportivi e nelle figurine Panini dei Campioni dello Sport.
Erano gli anni dell’Inter di Herrera, e Cameroni si sentiva un po’ il Mago del baseball. Trascinatore, istrione, scaramantico all’inverosimile, bravissimo nel darsi in pasto ai giornalisti con le sue polemiche, le sue sfide al Nettuno eterno rivale, al Bologna o al Parma, le grandi avversarie dell’epoca. Cameroni in quegli anni seppe interpretare il ruolo ideale del leader in questo sport strano che tentava di andare alla conquista degli italiani, sulla scia del mito di Joe Di Maggio e in un momento in cui la voglia di fare era tanta, in tutti i settori. Soprattutto in una Milano che sapeva essere ancora capitale dello sport e non doveva fare ancora i conti con il degrado dei palazzoni crollati e dei campi abbandonati.
Gigi Cameroni se n’è andato ieri mattina, in un ospedale di Magenta, tradito da una maledetta operazione chirurgica che l’ha tenuto sotto i ferri per un’intera giornata e poi gli ha creato una complicazione fatale. Aveva affrontato questa sfida con lo spirito di sempre. «Ma sono un po’ teso, come prima di una partita importante, di una finale», aveva detto entrando in clinica. E purtroppo questa volta è finito strike-out.
Aveva quasi 74 anni, ma non voleva saperne di uscire dal campo. Nonostante i problemi di salute, che negli ultimi tempi l’avevano tormentato, era riuscito ancora a trovare una panchina da occupare, a Genova, in serie C. Non era molto, per uno come lui che, oltre al Milano, aveva guidato per quattro anni anche la nazionale, ma era tutto per uno che del baseball aveva sempre fatto la propria vita. Dal primo campionato italiano, nel 1948, quando aveva vestito la casacca del Leo Milano, la squadra degli studenti del Leone XIII e del Gonzaga dove stava studiando, ai trionfi degli anni d’oro, quando con Giulio Glorioso formò la batteria lanciatore-ricevitore più classica del baseball italiano, vincendo due campionati consecutivi senza perdere una sola partita, un record impossibile da ripetere. Poi si era lasciato scivolare lentamente fuori dal campo, passando dal ruolo di ricevitore (il regista della squadra) a quello di allenatore, ma sempre in cabina di comando.
Voleva sempre la casacca numero 7, credeva nell’influsso positivo dell’arcobaleno, faceva la danza della pioggia quando voleva far sospedere le partite, allenava i suoi sparando negli altoparlanti le urla del pubblico di Nettuno per abituarli alla bolgia del campo più caldo d’Italia.

Il baseball italiano non ha perso solo uno dei suoi più grandi giocatori e allenatori, ha perso l’unico personaggio che ha saputo farsi conoscere anche oltre il nono inning.

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