Addio al critico della modernità

È morto il filosofo francese di «La società dei consumi». Un costante impegno contro gli schieramenti

Addio al critico della modernità

Jean Baudrillard, morto ieri a Parigi a 77 anni, si definiva «patafisico a venti, situazionista a trenta, utopista (come fondatore della rivista Utopie, ndr) a quaranta, trasversale (come collaboratore di Traverses, ndr) a cinquanta, virale (informaticamente, ndr) e metalepsico a sessanta». Dove «metalepsico» (chi antepone o pospone argomenti) era autoironico.
Andato nel 1967 in cattedra di sociologia a Nanterre, grazie al Sistema degli oggetti (Bompiani, 1968), nel 1970, dopo La società dei consumi (Il Mulino, 1974) era già mitico. I più impervi Critica dell’economia politica del segno (Mazzotta, 1974) e Lo scambio simbolico e la morte (Feltrinelli, 1979) gli avrebbero dato prestigio mondiale, ma si capiva già che era schierato contro gli schieramenti. Della seduzione (Cappelli, 1980) gli valeva l’odio di femministe e minorati; Il Partito comunista o i paradisi artificiali del politico (Bertani, 1982), riedito come La sinistra divina (Feltrinelli, 1986), sarcastico col progressismo consumista, ne faceva un autore inviso alla sinistra, mentre per la destra rimaneva ostico. Ne La trasparenza del male (SugarCo, 1990) il tizio assorto nel televisore anche con lo sciopero dei programmi esulcerava l’ironia di All’ombra delle maggioranze silenziose (Cappelli, 1978), umiliando l’uomo qualunque. Ne Lo scambio impossibile (Asterios, 2000) alla derisione della massa succedeva la preoccupazione per l’élite: «L’atmosfera liberal-democratica, assorbendo virtualmente ogni divergenza ideologica o consentendo ogni differenza fittizia, equivale al divieto di pensare».
Vita privata e vita pubblica(ta) di Baudrillard erano inscindibili. Nel diario del 1982, poi edito in Cool Memories (SugarCo, 1991), scriveva: «Sono nato nel 1929, subito dopo il giovedì nero, nel segno del Leone e della Crisi. Queste forze mitiche non ci lasciano più. Figlio della prima grande crisi della modernità, vorrei vivere tanto da vedere la sua svolta catastrofica a fine secolo». Dopo la svolta, scriveva nell’Illusione della fine (Anabasi, 1993): «Le cose non accadono più, sembrano solo farlo, il contrario della tipica astuzia della storia, quando cambiamenti essenziali non si notavano». Illusione la fine della storia coincidente con quella del comunismo reale; il tempo reale però era peggio. Baudrillard aveva cercato il futuro, vagando nell’America del Nord. Ora cercava il passato, vagando nell’America del Sud, ma non portava souvenir nel suo appartamento di rue St. Beuve, arredato con l’essenziale, per sottrarsi al sistema degli oggetti e alle sue gerarchie.
Ma cattedra illustre e «nascita» a sinistra permettevano a Baudrillard di scegliere l’isolamento, invece che subirlo. Una volta comunque ne sentì i morsi, per aver lasciato che Il complotto dell’arte (tr. it. Pagine d’arte, 1999), già edito a Parigi, fosse ri-stampato da Krisis di Alain de Benoist. Del resto, in Germania e negli Stati Uniti Baudrillard era più apprezzato che in Francia; perfino gli hollywoodiani fratelli Wachowsky dei tre Matrix si richiamavano a lui; in Italia la sua auge era stata connessa con l’Autonomia bolognese: i professori simpatizzanti l’avevano incluso nella collana «In/discipline» dell’editore Cappelli, dove nel 1977 - per seppellire il 1968 - apparve il suo Dimenticare Foucault. I devoti del dimenticando non dimenticarono Baudrillard, giurandogliela. Quanto agli altri, nemmeno se ne accorsero. Anche dodici anni dopo, «cancellata l’ipoteca del Muro», pochi s’accorsero con lui che il Muro «proteggeva più l’Ovest che l’Est», che «il comunismo esploso, destabilizzato, passerà nelle vene dell’Occidente sotto forma metabolica e surrettizia, per destabilizzarlo a sua volta. Non sarà più la violenza dell’Idea, ma il virus dell’immunodeficienza. Un comunismo che si dissolve è un comunismo riuscito». Comunismo solubile, liofilizzato, privo di pulsioni, livido di repulsioni, sbeffeggiato da Baudrillard per il suo «stigmatizzare i milioni d’italiani “vittime consenzienti di Berlusconi”, denunciare la stupidità delle masse e avvolgersi nelle pieghe della sinistra divina, della sua arroganza democratica». Ciò «è tipico dell’intellettuale illuminato, deciso a espatriare per rappresaglia (salvo non farlo)» (Taccuini 1990-95, Theoria, 1995).
Quando non era sociologo, Baudrillard era fotografo. Lo ispiravano i deserti e le loro oasi meccaniche: le stazioni di servizio. Gli pareva che gli Stati Uniti fossero l’Europa di domani. Però, apparso il terrorismo, né Stati Uniti, né Europa reggevano la sfida. Fin dallo Scambio simbolico e la morte, constatava che «le “richieste dei terroristi” sono un non-negoziato. E questo è in gioco: il passaggio all’ordine simbolico, esente da calcoli e scambi (solo di negoziati vive invece il sistema). Quando irrompe il simbolico, il sistema risponde solo con la morte fisica dei terroristi ed è sconfitto, perché è proprio la morte che essi mettono in gioco». Con Lo spirito del terrorismo e Power Inferno, editi da Cortina nel 2002, poteva solo ribadirlo.
Lucido con Foucault, che ri(con)duceva tutto a politica o a sessualità, lucido con chi paventava solo il «fascismo eterno», Baudrillard opponeva che il fascismo era morto, ma soprattutto che era stato «resistenza profonda, irrazionale, folle magari, che non avrebbe suscitato un’energia di massa, se non avesse resistito a qualcosa di peggio». Intanto, passata la guerra contro il Vietnam e venute le guerra contro l’Irak e la Serbia, gli antifascisti passavano dall’ossessione antiamericana a quella filoamericana.

Esente dalla prima, dunque dalla seconda, Baudrillard coglieva ciò che altri non volevano vedere: «L’Urss e i Paesi dell’Est erano un congelatore, un test e un ambiente sperimentale per la libertà, sequestrata e sottoposta a pressioni altissime, ma l’Ovest è la discarica di libertà e diritti dell’Uomo». Anche per questo Baudrillard ci mancherà.

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