Addio al divo francese che si sentiva quasi un italiano

Monicelli: «Rappresentava una razza d’attore in via d’estinzione»

Maurizio Cabona

Se la vita somigliasse ai film, ci si consolerebbe della morte, ieri a Parigi, di Philippe Noiret all’età di settantasei anni. Era il più italiano degli attori francesi. Pensate ad Amici miei di Mario Monicelli (1975), dove Noiret era il Tarozzi, capocronista della Nazione, e alla fine moriva. Sette anni dopo usciva Amici miei II, sempre di Monicelli, riproponendo Tarozzi/Noiret non solo vivo, ma ringiovanito, col pretesto che quello non era il seguito, ma il prologo - ambientato nel 1966 dell’alluvione - del film precedente! Il Tarozzi è rimasto la più efficace interpretazione cinematografica di un giornalista italiano ed era a quel personaggio, ben più che al Neruda del sopravvalutato (per via della nomination all’Oscar) Il postino di Michael Radford, che si pensava, meno di un mese fa, quando proprio a Firenze il festival France-Cinéma dedicava una retrospettiva a Noiret. Ma si sapeva già che lui non sarebbe arrivato.
L’ala della fine s’era allungata da tempo su Noiret, prima ancora che per la malattia, per la precoce scomparsa di tanti coetanei, a cominciare dai compagni di «zingarate». Se ne erano presto andati - in ordine alfabetico - Adolfo Celi, Duilio Del Prete, Renzo Montagnani e Ugo Tognazzi. Quattro anni fa, cenando a Milano, dov’era stato invitato dal Centre culturel français, Noiret mi confidava la sua malinconia: «Gran parte dei miei amici italiani non ci sono più». Alludeva agli «zingari», ma anche a «Ferreri, Gassman e Mastroianni». E aggiungeva: «Quando a Roma ho interpretato per la tv Mio figlio ha settant’anni di Giorgio Capitani, per la prima volta mi sono sentito solo. Una volta, appena arrivato a Roma, dall’albergo, telefonavo a Marcello, a Vittorio, a Ugo...». Di Tognazzi, il più sottovalutato fra loro, mi diceva invece: «Era l’attore perfetto: esagerazione, fragilità, inventiva, sincerità gli permettevano ogni ruolo».
Per gli italiani, il francese di Lilla Philippe Noiret era diventato da trent’anni un italiano più di quanto lo fosse mai sembrato Lino Ventura, che italiano - era nato a Parma - era a ogni effetto. Perfino Noiret aveva cominciato a crederci, visto che poi aveva recitato volentieri nella nostra lingua. E così il pubblico italiano sentì finalmente la sua vera voce, non più quella di Riccardo Cucciolla, il suo doppiatore iniziale, o quella di Montagnani, di cui era tributario per l’accento toscano in Amici miei. Con gli anni, da noi, Noiret avrebbe abbracciato nuove professioni sullo schermo, variamente connotate, come fa chi sa recitare e non chi è solo un bellimbusto. Modesta soddisfazione per lui, che aveva molto sofferto di non essere mai stato tanto bello quanto era alto.
Dopo il giornalista seduttore, erano così venuti il magistrato antiterrorismo di Tre fratelli di Francesco Rosi, il medico omosessuale - dopo aver fatto il medico militare nel Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini - degli Occhiali d’oro di Giuliano Montaldo, il proiezionista cinefilo di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, premio Oscar come film non americano, l’unico Oscar che lambì Noiret. E l’elenco potrebbe continuare a lungo, fra Sette volte donna di Vittorio De Sica (1967) e Marianna Ucria di Roberto Faenza (1997), visto che le sue partecipazioni a film italiani risalivano su su, fino a Frenesia dell’estate di Luigi Zampa (1964), primo lavoro con Gassman.
In Francia, Noiret - formatosi negli anni Cinquanta nel vivaio degli attori impegnati, il Théâtre national populaire di Jean Vilar - s’era rivelato più abitudinario che in Italia, dove solo Monicelli ha lavorato con lui cinque volte (oltre ai due Amici miei, in Speriamo che sia femmina, in Rossini! Rossini! e in Facciamo paradiso). Oltralpe il più noiretiano dei registi è stato Bertrand Tavernier, con sette film, incluso il suo primo, L’orologiaio di Saint-Paul, e il superbo La vita e nient’altro, più il cameo in Round Midnight. Se agli italiani Noiret è parso italiano, ai lionesi (come Tavernier) è parso lionese, eppure era di Lilla, al confine col Belgio! Poi, tra i registi devoti, c’è stato Philippe De Broca con cinque film, incluso l’insolito Chouans!, che mostra i crimini della rivoluzione in Vandea; seguiva Pierre Granier-Deferre con quattro, incluso Una donna alla finestra, tratto dal romanzo di Drieu La Rochelle; e infine Roberto Enrico con tre. Gli altri registi famosi di Noiret sono un elenco spettacoloso: Hitchcock, Litvak, Gance, Delannoy, Clair, Malle, Cukor, Chabrol, Lester, Zeffirelli, Verneuil. E in buona parte a Noiret si deve se Alberto Sordi ha dato una delle migliori prove in Francia, nel sulfureo Il testimone di di Jean-Pierre Mocky.
Nella vita privata non avreste mai visto Noiret trasandato come il Tarozzi. E tanto meno andare, all’alba, in visita galante a una signora, il cui marito, fornaio, si offriva intanto «cornetti belli caldi». Se infatti c’è stato un attore francese tanto interessato all’abbigliamento proprio quanto disinteressato al corteggiamento delle signore, era Noiret.

Elegante fino a essere azzimato, aveva l’aria di un gattone tranquillo, ma - proprio come i gattoni - andava preso con le molle. Una giornalista di arredamento gli chiese una volta di fotografare la sua casa di vacanze a Carcassonne; si sentì rispondere che aveva già acconsentito e che, dopo i fotografi, a casa sua erano arrivati i ladri.

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