
Esiste una costante, nel calcio italiano e non soltanto, che merita attenzione: certi calciatori di livellellatura mediana, una volta smesso di rincorrere palloni e avversari, si reinventano personaggi che diventano maggiori della loro carriera precedente. È quello che è capitato anche con Lele Adani. Oggi lo conosciamo come il commentatore ubiquo e appassionato, l’“apostolo del fútbol” che cita Bielsa e quasi frigna per Messi, una voce tonante e contagiosa che polarizza il pubblico. Ma prima di questo Adani era un difensore. Ed è qui che la memoria deve essere riavvolta.
Sgomberiamo subito il terreno dai dubbi: non era certo un fenomeno. Centrale rude, dai mezzi normali, cresciuto a Modena e affermatosi a Brescia, possedeva un passo corto ed una lettura onesta. Non guidava la linea difensiva con l’autorità di un Nesta o un Baresi, né sapeva cosa fosse l’eleganza aristocratica di Maldini. Era, piuttosto, un operaio del reparto arretrato: applicato, tenace, pronto al sacrificio. Un calciatore che viveva del sudore quotidiano, sopperendo così a quello che gli faceva difetto.
Eppure, nella sua narrazione personale, Adani tende a rileggere quel periodo glassandolo talora in suo favore. In un ormai sbiadito Fiorentina - Arsenal di Champions - lo ha ricordato lui stesso qualche anno fa - finì per divorare Marc Overmars, autentico folletto delle corsie esterne, uno che nell'uno contro uno ti saltava in nove casi su dieci. Alla Bobo Tv - quando ancora la comitiva andava d'accordo - dichiarò sprezzante di esserselo mangiato. Poco importa che quella improvvida esternazione sia poi stata eletta a meme, e che le immagini diffuse ovunque sui social l'abbiano pietosamente smentita. Beep beep scappava via sovente, quella sera lì. Eppure, per qualche ragione, c’è una poesia che vivrà tenera, racchiusa in questa memoria selettiva: per chi ha vissuto la carriera nelle retrovie, ogni notte di gloria diventa eterna.
Ma non tutte le cronache sono così generose. Specie se a farle è qualcun altro. Prendiamo Gigi Cagni: “L'ho allenato ad Empoli - ha detto - ma non aveva questa grande conoscenza calcistica. Infatti con me faceva panchina”. Una frase asciutta, quasi crudele, ma realistica. Perché Adani era questo: un calciatore collocato su un bordo, abbastanza affidabile per essere utile, mai così determinante da essere imprescindibile. A Brescia e a Firenze trovò spazi di titolarità, all’Inter fece il gregario silenzioso, il numero in distinta che non si lamenta. La sua vera dote era la dedizione, la capacità di tenere alta la soglia dell’impegno anche quando i riflettori non si accendevano mai su di lui.
La metamorfosi arriva dopo. Una volta appesi gli scarpini, Adani ha trasformato quella passione – che in campo era rigore, sudore, sguardo severo – in parola, racconto, visione. È diventato il tribuno televisivo che discetta di pressing alto e spiritualità sudamericana, che evoca Guardiola e Simeone come figure bibliche, che si asciuga le pupille per l’arte sovrumana di Messi. Così, se il calciatore era normale, il commentatore è straordinario: emotivo, lirico, irriducibilmente sopra le righe. L'obiezione mossa da molti - se era scarso non può ergersi a profeta - è risibile: non devi per forza essere stato un fuoriclasse per parlare di qualsiasi argomento con cognizione di causa.
E forse è proprio in questo scarto che si misura la sua parabola. Il difensore di provincia, spesso panchinaro, ha scelto di reinventarsi intellettuale del pallone. Con i suoi eccessi, certo. Con il suo linguaggio enfatico, che divide e infastidisce. Ma anche con un’energia che, nel nostro calcio stanco e ripetitivo, non si può ignorare.
In fondo, Lele Adani è il simbolo di una verità più ampia: non serve essere stati campioni in campo per diventarlo fuori.
Basta avere la forza di crederci, la costanza di raccontarsi, l’ambizione di lasciare un segno. Quello che gli riuscì soltanto relativamente da calciatore sa farlo oggi, come commentatore che non riesce a mettere tutti d'accordo, ma che senz'altro non resta indifferente.