Non aveva tatuaggi. Non portava orecchini di diamanti. Non teneva i capelli stretti dalla fascetta. Non faceva densità, non conosceva l’uno contro uno, non saltava l’avversario, non aggrediva gli spazi. Era Roberto Rosato e basta, centromediano, stopper, comunque calciatore e difensore di quelli tosti, dalla faccia d’angelo e dal piede come un martello. Roberto Rosato aveva le gambe stortignacole come i grissini rubatà (robat era quel cilindro che trainato dal trattore sul campo, lo spianava) del suo paese d’origine, Chieri, la collina di Torino, dolce profilo prima di calare a valle lungo il Po.
Rosato correva e pareva potesse inciampare da un momento all’altro. Semmai cadevano come birilli quelli che si fossero azzardati a mettersi davanti a lui. Non usava mezze misure, come diceva Rocco ad Anquilletti: «Pica, se xe el balon xe mejo», lui andava al bersaglio, di anticipo, in tackle, in recupero, di testa, su dribbling stretto. Ricordo un derby in cui gli toccò Boninsegna, su un calcio d’angolo cercò di afferrarlo per la maglia, Bonimba sfuggì; Rosato, scivolando quasi, si aggrappò ai pantaloncini dell’interista, Bonimba aveva chiappe e cosce durissime, Rosato ormai giaceva a mangiare la segatura del prato ghiacciato quando decise l’ultimo colpo, tentò a morsi di afferrare le stringhe delle scarpe di quel maledetto che si chiamava come lui, Roberto, ma non voleva fermarsi.
Era questo Rosato, uomo vero e calciatore puro, prima del Toro e poi del Milan, finendo la carriera con la maglietta del Genoa, tre squadre con il nome della città, tre squadre con il sangue caldo dei tifosi, a distinguersi dalle consorelle più sofisticate (ma dove?). Era stato eroe in Messico, Valcareggi gli aveva preferito Niccolai, per fare coppia con Cera e soddisfare il Cagliari campione. Poi il Comunardo che fece ridere Scopigno («Tutto mi sarei aspettato nella vita tranne di vedere Niccolai via satellite!»), si fece male alla prima partita mondiale, poteva essere la volta di Puja ma toccò a Rosato, con il ginocchio valgo e il cuore in tumulto, Gianni Rivera lo scosse, i due erano nati lo stesso anno, il Quarantatre, lo stesso giorno, il diciotto, lo stesso mese, agosto, in Piemonte, mandrogno alessandrino l’artista del pallone, chierese il mastino di difesa.
Fu un gran mondiale il suo: alle prese con Muller non gli fece toccare palla, poi Rosato dovette arrendersi prima dei supplementari cedendo il posto allo sghembo granata Poletti, il tracagnotto Muller ne aprofittò segnando gol. Poi ci fu il Brasile, di quel giorno di sole e di buio Rosato conservò la maglia di Pelè, sottratta in una specie di sfida all’ultimo strappo, a un tifoso, prima dell’intervento decisivo di un poliziotto all’Azteca. A fine giochi, Muller e Roberto trascorsero insieme le vacanze al mare. Storie di altri tempi e di altro football.
Campione d’Italia, tre coppe Italia, due coppe delle Coppe, una coppa dei Campioni, una coppa Intercontinentale, campione d’Europa e vicecampione del mondo con la nazionale azzurra, diciassette anni di carriera, poi, il silenzio, totale, il ritorno a Torino, il lavoro di assicuratore, la famiglia, la moglie Anna, Davide e Carola i figli, una vita riservata, quasi evitato dal football feroce e senza memoria.
Improvvisamente la morte restituisce l’affetto dei tifosi, si riempie il corteo che porta il cordoglio di chi lo aveva dimenticato. Gli ultimi anni erano stati di sofferenza durissima, la malattia lo aveva colto nel fiore, rarissime le sue apparizioni già sporadiche per scelta.
Se ne è andato in una mattina di domenica, come usano fare i grandi. Se ne è andato il giorno della partita dell’Italia, quasi a ricordarci che abbiamo perso un campione. Anna, Davide e Carola mai avevano smarrito un marito, un padre, un uomo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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