nostro inviato a Duisburg
Ci risiamo. Al primo accenno di turbolenza, la nazionale si allaccia le cinture di sicurezza e tutti quei bei discorsi sullItalia che pratica un calcio offensivo e moderno, finiscono in fondo al cassetto del computer. Ci risiamo. LItalia di Lippi, la notte di Hannover contro il Ghana, mica lultima cenerentola del torneo, si presentò al mondiale con Toni e Gilardino, le due torri, dietro di loro il Totti ispiratore e poi un centrocampo avvitato su Pirlo che non è certo un ruba-palloni per dirla alla Gattuso, con la spinta a sinistra di Grosso, allora schierato in coppia con Zaccardo. Bene, bravi, bis: applausi e 2 a 0, elogi e lodi diffuse alla squadra e al suo ct. A meno di due settimane da quellesaltante battesimo, sembra di seguire e recensire unaltra Italia, di stile trapattoniano addirittura, che si attacca ai pali della porta per difendere con le unghie e con i denti il minuscolo vantaggio conquistato in un solitario assalto alla baionetta contro la Repubblica Ceca.
A riascoltare le registrazioni degli ultimi tempi, la svolta è contenuta nelle parole di Fabio Cannavaro, capitano e in qualche modo esponente di prima fila della Nazionale, uno di quelli consultati da Lippi nelle sue discussioni serali. «A volte bisogna anche difendersi allantica ed evitare di fare della poesia» raccomandò il napoletano con quella sua faccia dangelo, può dire ciò che vuole senza provocare incidenti diplomatici.
La nuova tendenza tattica dellItalia che non cattura più locchio, ma punti e gol per fare strada, nasce storicamente ad Amburgo, alla vigilia della sfida che deve decidere il passaggio agli ottavi. Linserimento di Camoranesi al posto di Toni non è un cambio banale: significa togliere un centravanti, lasciando da solo Gilardino a lottare con la concorrenza, aggiungere alle sue spalle Camoranesi sulla linea di Totti per rendere più consistente il numero dei centrocampisti, cinque in tutto che fanno da scudo protettivo per la difesa. «Una o due punte, non cè alcun tipo di problema, è giusto che sia Lippi a decidere, ad Amburgo siamo riusciti a creare molte occasioni da gol» è la testimonianza indolore di Alberto Gilardino, un gol al mondiale, contro gli Usa, e tanta fatica spesa più per rivelarsi funzionale alla squadra che per inseguire il successo, la fama personale. E non è certo in discussione la compatibilità di Gilardino con Toni o con Inzaghi: da bravo centravanti della porta accanto lui è aperto a qualsiasi soluzione. E se parlando di Toni rivela che «arrivato qui con i 31 gol di campionato, il mondo gli è crollato addosso», segnala pure che con Inzaghi «lintesa è buonissima» come testimoniano anche i numeri del loro sodalizio in rossonero, per il campionato, non per le coppe dove Gilardino rimase a secco. Forse più per questioni psicologiche che tecniche.
Se è questa la nuova tendenza, nessuna meraviglia che dal club Italia arrivi una convinta adesione al nuovo progetto tattico. Zambrotta, al pari di Cannavaro, è uno di quelli che ha il dono di parlare chiaro, di risultare trasparente. «Il modulo contro la Repubblica Ceca è il migliore possibile perché ci permette di difenderci tutti e di ripartire tutti insieme» sostiene. Che è poi un inno, riveduto e corretto, al vecchio e caro contropiede. È vero, giocando così, ai tempi del Parma, Gilardino stupì la platea con una striscia di gol di ogni tipo ma le analogie sono inesistenti. «Era diverso, avevo Morfeo alle mie spalle, e poi cerano Bresciano e Marchionni sui lati che facevano le ali» ricostruisce Gilardino, rimasto invece a secco di opportunità ad Amburgo, prima di cedere il posto a Inzaghi.
La mutazione genetica avvenuta a Duisburg in dodici giorni, dagli Usa a Nedved per intendersi, è impressionante. Perché adesso, ad esempio, Perrotta savventura in una polemica con la stampa straniera che ritrae dallarmamentario letichetta di catenaccio per il calcio italiano e pensa così di liquidare la questione. «Sono censure ingenerose, immeritate, noi giochiamo con una punta e due mezze punte, proprio come lArgentina. Perché non rivolgono lo stesso giudizio alla squadra di Pekerman?» si chiede il romanista che nellansia di polemizzare commette forse anche un errore di valutazione. «Noi siamo venuti qui per vincere non per lasciare il ricordo del bel calcio. Chi si ricorda più dellOlanda del 74?» sostiene e forse dimentica che invece è vero esattamente il contrario.
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