Addio a Valcareggi ct che divise l’Italia con la staffetta

Portò gli azzurri al titolo europeo, fu secondo ai mondiali del ’70 in Messico. Ma passò alla storia per il cambio tra Mazzola e Rivera

Tony Damascelli

C’era il triestino Nereo e c’era l’altro triestino, Uccio. Con il paron te la spassavi, volendo avresti potuto comporre un romanzo. Con Valcareggi rischiavi di non scrivere nemmeno una riga. Perché Ferruccio Valcareggi non era spinto dalla bora a dire e divertire, era un uomo probo e con qualche frase sgrammaticata («Rivera e Mazzola hanno fatto la sua partita») sapeva di football che, nel settore, sembra sempre di più merce rara. Per i contemporanei, agitati dalle prove tv e dalla perdita di memoria, segnalo che la nazionale italiana allenata da Valcareggi vinse un titolo europeo nel 1968 contro la Jugoslavia e perse la finale mondiale del 1970 contro il Brasile, il Brasile di Pelè e Jairzinho, non di Dunga e Bebeto. Al rientro in Patria vennero presi a monetine e pomodori, Uccio e gli altri azzurri con l’eccezione del «pallido prence mandrogno» (copyright Gianni Brera), al secolo Gianni Rivera, eroe di comodo per i 6 minuti concessigli dal suddetto Uccio nella finale contro i brasiliani. Letto l’almanacco, che comunque fa prima cronaca e poi storia, Valcareggi fa di sicuro parte di coloro che hanno dato luce al nostro calcio, anche per la rilettura tattica e caratteriale che ne seppe fare, dopo le comiche del ’66.
Ho detto apposta comiche. Infatti all’epoca Valcareggi era tra i consulenti di Mondino Fabbri e alla vigilia della partita contro la Corea andò a osservare gli avversari e tornò con una relazione ridotta all’osso: «Sembrano Ridolini» paragonandoli a Larry Semon, protagonista americano del cinema muto, da noi tradotto appunto in Ridolini. A ridere fu mezzo mondo, grazie al colpo di Pak Doo Ik, l’Italia perse partita e faccia, Valcareggi restò dietro il palcoscenico ma due anni dopo diventò, grazie alla reggenza Franchi e all’opera astuta di Mandelli e Allodi, l’uomo della provvidenza. Non erano tempi tanto facili. Valcareggi doveva gestire le mattane di Giorgio Chinaglia che lo mandò a quel paese in mondovisione, dopo la staffetta con Anastasi in un’altra celebre ridolinata contro Haiti; fece i conti con la notte brava dello stesso Pietruzzu Anastasi alla vigilia del mondiale messicano; poi nell’altura messicana c’erano molte teste euforiche, Rivera voleva tornarsene a casa, Nereo Rocco gli ordinò di restare, incominciarono le trasmissioni televisive intercontinentali e Manlio Scopigno così descrisse l’impiego di Comunardo Niccolai: «Tutto mi sarei aspettato nella vita ma non di vedere Niccolai via satellite». Lo svedese Kindvall mandò in frantumi Comunardo e le battute di Scopigno, giocò Rosato con il ginocchio valgo. Fu un mondiale allegro, Carosio per colpa di un guardalinee etiope che segnalò un off side di Domenghini («cosa sbandiera l’etiope!») venne sospeso (senza farsi eleggere al parlamento europeo) e sostituito a vita da Nando Martellini, battemmo il Messico 4 a 1, Valcareggi era uno zucchero, Beppe Viola confezionò un memorabile servizio televisivo, l’autorete di Peña, la doppietta di Riva, il gol di Rivera erano accompagnati dalla voce di Jannacci che cantava Messico e nuvole!. Venne il 4 a 3 leggendario con la Germania e poi la finale amarissima con il Brasile, tutto firmato da Ferruccio Valcareggi e dalla sua orchestra. Così come la vittoria di Wembley, sull’Inghilterra, il tiro di Chinaglia, la respinta di Shilton e il carrello basso di Capello che mette in rete nel tempio ammutolito, dopo che i tabloid avevano presentato l’evento così: «Settantamila inglesi contro undici camerieri».
Questo era il tempo di Ferruccio Valcareggi che fu anche calciatore con Triestina e Fiorentina, Bologna e Vicenza, Milan, Brescia, Piombino e Lucchese, che in nazionale era chiuso da gente illustre, da Mazzola Valentino in giù e che aveva preso dimora e quasi accento toscano vivendo tra Coverciano, ormai un museo delle cere azzurre, e il Franchi di Firenze.


Rivedendolo in alcune fotografie dell’epoca, con quella tuta celeste, la scritta cubitale ITALIA, divisa dalla zip, a gonfiare il petto, priva di sponsor e di altri orpelli, sembra davvero di risentire il profumo dell’olio canforato e di rivivere un giornalismo e un football che ormai sono stati sepolti. Il minuto di silenzio è doveroso, dopo quel lungo, miserabile silenzio che il nostro calcio ha riservato a Ferruccio Valcareggi, mezzala e allenatore di un tempo ormai perduto.

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