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Addio a Walter Bonatti L’ultimo eroe dell’alpinismo che sfidò invidie e calunnie

Così in alto Walter Bonatti non era mai salito. Il capolavoro, l'ultima via, è stata questa sua vita esemplare. Se ne è andato martedì, a Roma, a causa di una malattia, e si fa fatica a crederlo, specie dopo averlo visto nelle recenti occasioni pubbliche al fianco di Reinhold Messner, dichiarare, lucido e scattante nella voce e nel gesto, di sentirsi un quarantenne.
Nel dopoguerra Bonatti era ancora il giovane uomo coi capelli a spazzola e uno sguardo pieno di luce che molti ricordano nei filmati in bianco e nero mentre, dalla nave di ritorno dal K2, a Genova, salutava la folla festante. Già negli anni '60 divenne l'icona dell'alpinismo, quasi un'antonomasia di livello mondiale («Sei un Bonatti» si comincia a dire a chi va forte in montagna). La leggenda arrivò ben prima della sua scomparsa, senza bisogno di leggere «Bonatti is God» sulla ruota di scorta della Rover di Steve House, l'astro nascente dell'alpinismo nordamericano. Nato a Bergamo, portò alto l'onore e la gloria dei Ragni di Lecco, origini e «militanza» alpinistica urbane che spiegano modi raffinati, gentili, una cultura e una sensibilità rare:
«Non sono montanaro di nascita, ma sono giunto alla montagna per passione. Il mio input avventuroso è dato senza dubbio dalla curiosità, una irriducibile curiosità, via via sempre più associata alla fantasia, al sogno, al bisogno insopprimibile di dare a tutto un concreta realtà. Fare dell'alpinismo estremo per me non è stata una fuga dal campare quotidiano e neppure è stata una ribellione alle miserie di una società ben poco stimolante, a quel tempo; è stato invece, e soprattutto, un bisogno ostinato e irriducibile di raggiungere e sempre più raggiungere. Le mie imprese hanno cominciato a esistere nel momento stesso in cui prendevano forma nella mia mente. Tradurle poi nella realtà non è stato che un seguito logico di quella prima scintilla, di quella prima invenzione. È quando immagini che vivi intensamente, come è soltanto quando credi che inventi per davvero. Lassù mi sono sentito sempre più vivo, libero, vero. Ho anche potuto soddisfare il bisogno innato che ogni uomo ha di misurarsi e di provarsi, di conoscere e di sapere. Fin dall'inizio l'alpinismo è stato per me avventura e l'avventura ho sempre voluto viverla a misura d'uomo e nel rispetto della tradizione».
Fu il K2, nel 1954, a portare alla ribalta Bonatti, a segnare la sua vita, inducendolo all'azzardo delle solitarie su terreni improbabili (si pensi a quella memorabile di sei giorni sul Petit Dru, uno dei satelliti del Monte Bianco, nel 1955), quasi che dietro di lui urgesse il bisogno di mostrare a tutti - e non solo a chi gli aveva «impedito» di scalare la vetta della seconda montagna del mondo - di cosa era capace. Il tentativo di metterlo in ombra, in quella pur vittoriosa spedizione che riscattò l'Italia, sarebbe certamente andato in porto se lui non avesse perseguito, con perseveranza, un futuro da predestinato. La notorietà di successive imprese impossibili gli diedero il meritato palcoscenico che lui utilizzò anche per farsi giustizia. «Quella notte» del 30 luglio del 1954 all'addiaccio con l'hunza Mahdi a oltre 8000, vigilia della salita italiana (e prima assoluta) sulla seconda vetta della terra «io dovevo morire», scrisse senza sconti, inchiodando i colpevoli alle loro responsabilità, pretendendo che il Cai lo riconoscesse ufficialmente.

Passarono molti anni finché, nel 2004, una commissione istituita dal Cai, della quale faceva parte anche Fosco Maraini, riconobbe che «senza Bonatti la vetta non sarebbe mai stata raggiunta».

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