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Adesso anche gli insulti anarchici dei punk sono degni di un museo

Villa Medici (Roma) ospita la mostra Europunk. Attraverso volantini, manifesti, magliette, fanzine e fotografie (raccolte attraverso tutta Europa tra collezionisti privati) intende esaltare il valore artistico del movimento «esploso» in Inghilterra tra il 1975 e il 1979

È sempre la solita storia. Più ti opponi al museo, più finisci - col tempo - per esserne attratto, assorbito, imprigionato. L'ultimo esempio? Il punk. Un filone - tra i più vivaci a dire il vero - della controcultura di fine Novecento, che ha spaziato in vari campi dando il suo meglio, però, con la musica (lo so, sembra un paradosso) e la moda (basti citare il nome di Vivienne Westwood). A 35 anni di distanza quello che resta di quell'ondata di energia anarcoide entra in un museo. Anzi, peggio, in un'accademia. Si tratta di Villa Medici a Roma dove si è aperta la mostra «Europunk, curata dallo stesso padrone di casa dell'istituto francese, Eric de Chassey, insieme con Fabrice Stroun.
Manifesti, poster, magliette, fumetti, fotografie e contributi filmati servono in questo caso non a raccontare la storia di un movimento, ma a consacrarne il valore artistico. Questa la tesi forte cui si aggrappa de Chassey. «Il punk per me - spiega il curatore che ha impiegato più di cinque anni per mettere insieme il materiale della mostra - è più importante dell'arte povera e della transavanguardia». E di quella temperie oggi resiste soprattutto il lavoro del collettivo francese Bazooka (esperti di graphic designer) nelle cui fila milita anche Kiki Picasso, nome d'arte di Christian Chapiron, cui si deve uno modello dell'orologetto di plastica Swatch del 1985, tra i più ricercati dai collezionisti.
La mostra concentra la sua attenzione nel lustro compreso tra il 1975 e il 1979. Sono gli anni in cui esplode il movimento britannico del punk rock. Movimento che vede come protagonista assoluto il gruppo dei Sex Pistols di Sid Vicious. La musica era solo all'apparenza un'accozzaglia di rumori. Sotto covavano fermenti di ribellione che presto avrebbero trovato i canali più insoliti per esprimersi. Di sicuro non dentro un museo. Lo scopo era quello di rendere il più democratico possibile il sistema di comunicazione. Quindi bando alla pittura, esempio di perizia e cultura. E via con i collage e i ciclostili. Se in America, dove il punk è nato alla fine degli anni Sessanta, il movimento musicale rimase ben ancorato allo star system, in Inghilterra ha debordato per le strade e in tutti i settori della vita pubblica al principale scopo di denunciare un «sistema» che non piaceva e verso il quale ci si sentiva estranei.
L'arte punk è quindi diventata uno strumento quasi di propaganda politica. Fumetti underground, volantini (tanti, tantissimi), fanzine e riviste assemblavano immagini e loghi per costruire messaggi forti e di rifiuto. Ma soprattutto messaggi spiazzanti. Come quello - forse il più conosciuto - che campeggia proprio all'ingresso della mostra. Si tratta di un poster che a suo modo pubblicizza una delle prime (e più celebri) canzoni dei Sex Pistols: God save the queen. A idearlo è stato Jamie Reid che ha messo il volto della regina Elisabetta come medaglione della Union Jack. Un volto censurato da «pecette» nere che ne coprono occhi e bocca.
Col senno di poi sono stati tanti i protagonisti di quella stagione che hanno volto lo sguardo a esperienze affini alle loro, come il movimento dada o il situazionismo di Guy Debord.
«Con quelle poetiche però - spiega Fabrice Stroun - il collegamento non è immediato. Si trattava di movimenti di avanguardia che agivano comunque all'interno del circuito artistico. Qui invece ci troviamo di fronte a espressioni genuinamente popolari nate esclusivamente dall'urgenza di urlare un disagio e una protesta e sicuramente lontane da accademie e circuiti intellettuali».
Il punk, insomma, è la prima forma d'arte che vive lontano dai suoi destinatari d'elezione per diffondersi per le strade e nelle cantine attraverso manifesti e volantini con messaggi tanto vivaci quanto improbabili. In una delle magliette in mostra campeggia la scritta «only anarchists are pretty», affiancata da un ritratto di Karl Marx. In tante altre croci celtiche e profili di Stalin si susseguono senza una logica apparente.


Malcom Mc Laren e Vivienne Westwood, dal canto loro, cercarono di sconvolgere i dettami della moda sfruttando l'energia dei gruppi punk quasi fossero teste d'ariete per violare le fortezze del canone. Un tentativo fallito se oggi, a distanza di 35 anni, quelle provocazioni sono diventate roba da museo.

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