È una nuova settimana. Sembra quasi di sentire il respiro del mondo. È affanno, preoccupazione, incertezza, paura. Il timore è che tutto questo diventi panico. La fuga scomposta, irrazionale, dalle Borse, dall’ottimismo, dalla fiducia, di una massa di gente senza più direzione, che guarda al futuro con un solo sentimento: si salvi chi può. Ecco lo spettro, che un giorno arrivi il lunedì nero di tutti i lunedì neri. Il grande caos. Il lunedì senza speranza. Molti in queste ore si fanno una domanda: come si ferma il panico di una folla globale? Miliardi di individui sparsi per ogni angolo terrestre malati di pessimismo. È come guardare una moltitudine di gente in fuga disordinata da una piazza o da un mercato. Solo che qui la piazza è virtuale. Qualcuno dice: chiudiamola e aspettiamo che il panico finisca. Ma non è detto che funzioni. Appena riapri si rischia il disastro. Definitivo.
Manca la fiducia. È una stagione particolare, senza punti di riferimento. Il peggiore per vivere una crisi. L’impero americano è senza imperatore. Bush è nel suo semestre bianco. È un capo senza corona. Non è neppure uno di quei grandi vecchi autorevoli che, in attesa del successore, tiene in mano con un solo sguardo le sorti del mondo. Obama e McCain fanno la loro corsa e sono impegnati a vincere. Non a governare. Il loro futuro si ferma a novembre. Tutto quello che succede dopo è un’altra vita. Non è il momento di preoccuparsene. L’Europa ha appena scoperto che in mezzo alla tempesta ognuno pensa per sé. C’è da salvare il giardino di casa. Non va meglio nel resto del mondo.
È questo il problema. Il panico si ferma con il carisma e con la verità. Questa folla globale non crede più a nulla. Non crede alle banche, convinta che i signori della finanza non abbiano detto tutta la verità. E se l’hanno detta, comunque, non l’hanno capita. Non sanno chi ha imbrogliato. Chi ha sbagliato. Chi li ha illusi. Non vedono responsabili. Non c’è un capo espiatorio chiaro. Non c’è nessuno, per fortuna, da mettere alla gogna. Non capiscono cosa sta accadendo. Quanto è grave, quando finisce e se finirà. È come il ’29, anzi è peggio, e comunque tutto passa. Anche il peggio. Sbandati, chiedono chiarezza e risposte, in qualche modo rassicuranti. È in questi momenti che la storia ha bisogno di élites carismatiche, in grado di interpretare lo spirito del tempo. Élites democratiche e autorevoli. Qualcuno di cui fidarsi. Volti. Riconoscibili. Parole. Sì, anche parole. C’è nostalgia di quei discorsi che mettono un punto e danno la svolta. Le chiacchierate dal caminetto di Roosevelt hanno accompagnato il New Deal. Tante iniezioni di statalismo, che non sono state gratis per il futuro dell’America, ma anche una voce che dice: «L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa». Parole, ma che pesano. L’ottimismo reaganiano è scritto in una frase: «Noi vogliamo dare alla gente la possibilità di diventare ricca». E se oggi c’è un nero che corre alla Casa Bianca è un po’ anche per quel sogno.
Le parole segnano un percorso, un progetto, una via d’uscita. È la politica che mette in chiaro il suo ruolo, dice quello che serve, da che parte andare, perché bisogna rimboccarsi le maniche. Le parole servono a comunicare la risposta che manca. È quello di cui la gente ha maledettamente bisogno. Lo sanno anche i leader mondiali, che da giorni si riuniscono per cercare la soluzione. Solo che questo valzer di G7, G8, vertici ristretti, allargati, tavoli istituzionali non basta. Sembra quasi alimentare il caos e forse è un po’ colpa di quel sapore grigio di burocrazia, come se il mondo fosse governato da potenti lontani e senza volto. La speranza è che questi vertici siano una sorta di «senato» globale che, in assenza dell’imperatore, torni a fare politica. Un Senato politico, non tecnico.
Vittorio Macioce
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