Adolf Vallazza, il maestro dei troni che vivono

Lo scultore prima lavorava solo legni d'ulivo Dai '60 sceglie quelli antichi della Val Gardena

Adolf Vallazza, il maestro dei troni che vivono

Chi dedica la sua intera vita a rappresentare troni, in questo caso a scolpire, ha certamente una concezione regale della vita. Non si da' trono senza un re. Un amico di Oristano (affine ad Ortisei) ha teorizzato la «regalità individuale»: siamo tutti re e regine, ognuno di noi ha il suo regno che è nella sua mente e nel suo dominio: può, cioè, essere re senza essere, ovviamente, eletto e, anche, senza essere riconosciuto. Ognuno è re di se stesso. Se lo dice da solo, lo stabilisce indipendentemente da qualunque giudizio o critica. L'intuizione è geniale e veritiera. I troni di Adolf Vallazza sono quanto di più vicino a Dio e quanto di più concreto e fisico si possa immaginare. È un realista, dunque, Vallazza? No, concepisce una realtà trasfigurata e inesistente. E vuole che sia il più possibile simile alla natura. Scolpire non è riprodurre il reale, ma far nascere una realtà nuova. Non interessa a Vallazza l'imitazione, la mimesis, né nelle forme né nei materiali; gli interessa definire i confini tra il mondo e il suo mondo. Scrive di sé: »Ho iniziato a lavorare con il legno antico, quasi per caso. Il mio vicino aveva comprato il legno di un vecchio fienile da ardere durante il rigido inverno. Osservandolo da vicino mi sono reso conto che era perfetto per ciò che volevo scolpire: forme astratte e intersecazioni geometriche. Si stava esaurendo l'influenza dell'impressionismo sulla mia arte: quando ho incontrato il legno vecchio è stata una svolta».

Il suo mondo è qui e, per ognuno di noi, Vallazza predispone una sontuosa accoglienza. Anche questi oggetti, ricavati dalla mano dell'uomo, non servono per integrarne o innalzarne l'opera, ma per sostituirsi. I troni sono individui dotati di corpo e di anima: respirano, palpitano, vibrano. Qualcuno dice che si tratta di opere astratte. Io non l'ho mai pensato. Quei troni sono organismi viventi: sono figli della Val Gardena.

Ogni scultura è ideata muovendo da uno studio grafico :disegni, acquarelli, pastelli, traccia di un percorso necessario, e pressoché inedito. Questi disegni, fortemente plastici, si trasferiscono poi nella forma lignea, carica di vitalità pittorica. Salgono verso l'alto, i troni, come edifici gotici, come vette. Indicano una idea immanente di Dio. E ognuno di loro contiene una parte dell'anima di Vallazza. A ben guardarli, i suoi troni, sempre più elaborati e vari, appaiono come persone con un loro carattere, un loro volto, un loro corpo, una loro anatomia. Una loro identità, infine. Vallazza afferma: «Il senso dell'armonia e della composizione è fondamentale. Quando lavoro su una scultura non mi fermo finché non sento di aver trovato i giusti volumi, finché non si raggiunge l'armonia. Poi, alle volte, accetto anche le dissonanze, perché anche le dissonanze esistono. Ho delle sculture che tendono da una parte, perché anche l'asimmetria fa parte della simmetria. Ma tutto deve sempre partire dalle proporzioni umane. Le mie primissime sculture erano classiche, solo più tardi ho trovato la mia strada, a partire da figure umane sempre più stilizzate. Ai tempi (negli anni Quaranta e Cinquanta) lavoravo l'ulivo, materiale che poi ho lasciato, perché per me il tronco d'ulivo è già una scultura, e quando lo scolpivo riuscivo solo a rovinarlo. Il materiale va capito e sentito. Usando l'ulivo la natura faceva già tutto e io, come artista, potevo solo peggiorarla. C'erano sculture in ulivo di cui ero soddisfatto, ma il mio bisogno di rispettare la forma e il materiale era più forte».

È per questo che nella sua produzione, a partire dal fine degli anni Sessanta, Vallazza utilizza legni antichi, anche secolari, trovati nelle case contadine, quanto più vecchi tanto più belli.

«Sono legni che vengono dalle pareti delle stufe, che hanno visto la storia, e da artista ti chiedi cosa possano aver sentito, quante generazioni, quanti secoli abbiano vissuto. Quelli che sono stati fuori sono corrosi, consumati. A volte sono mangiati dalle tarme. Altri legni mostrano buchi sulla superficie: sono i segni delle scarpe chiodate dei contadini, che hanno camminato su di loro per anni e anni. Poi c'è il colore, anche quello varia a seconda della loro vita. Ci sono i legni bluastri, che hanno preso la pioggia, e quelli rossi, che sono bruciati dal sole, e poi ci sono i grigi, declinati in tantissime tonalità. Talvolta aggiungo della tempera ad acqua: mai olio, voglio che il colore rimanga il più naturale possibile».

Si tratta della maturazione creativa e originale dopo la iniziale attività artigianale nella produzione di sculture religiose della tradizione della Val Gardena. Quante ce ne saranno nelle chiese, della sua mano, della sua bottega, irriconoscibili! Ma l'artigiano confina con l'artista e, attraverso l'esperienza di alcune Biennali del dopoguerra, Vallazza si misurò con Henry Moore, Marino Marini e soprattutto Brancusi, la cui astrazione o semplificazione, le cui «colonne» furono una grande fonte d'ispirazione. Da lì discendono i totem e poi i troni che uniscono all'invenzione la funzione. Ma per regalità perdute, per uomini di altri tempi o per personalità evocate. Oggi gli esseri umani hanno meno personalità di quei legni scolpiti.

Per questo i troni di Vallazza parlano, vivono, palpitano. Per questo sono presenze di vita nella nostra vita assente. E nei momenti più alti sono essi a sedersi su di noi, e a portare nel mondo l'anima di chi li ha concepiti.

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