Glielo diranno quella mamma e quel papà che da un anno e mezzo si prendono cura di lui come genitori adottivi. Lo aiuteranno psicologi e psichiatri, ma chissà quanto potrà capire Matteo (nome di fantasia) di quel pasticciaccio brutto che riguarda la sua adozione. Perché lui due anni fa non avrebbe dovuto essere adottato ed ora un giudice «dovrà valutare se leventuale rientro nella famiglia di origine possa causare pregiudizi al minore, tenuto conto delle sue specifiche esigenze attuali e del periodo trascorso presso la famiglia cui è stato affidato».
La storia del piccolo Matteo sul quale ora è intervenuta la Cassazione è il frutto di disattenzioni, superficialità e mancati approfondimenti. E comincia il 28 luglio 2008, il giorno della sua nascita, quando sua madre, 30 anni, milanese, libera professionista, decide di non riconoscere il suo bambino, lasciandolo in ospedale dopo il parto. Il tribunale, come prevede la legge, apre immediatamente lo stato di adottabilità, ma dopo quattro settimane di tormenti per aver lasciato il proprio figlio, Anna (la chiameremo così) ci ripensa. Aveva paura di non farcela da sola ad allevare quel bimbo, ma ora capisce di non volere nientaltro che lui tra le sue braccia. A metà agosto la donna si presenta davanti allufficiale dello stato civile con in mano la richiesta di procedere al riconoscimento del suo bambino. Ma, qui il primo incredibile errore, lufficiale si rifiuta di ricevere latto. Va detto che la Corte di Strasburgo ha fissato in minimo 6 settimane il periodo finestra durante il quale la madre naturale può ritornare sui suoi passi. Una norma che ha lo scopo, spiegano i giudici della Cassazione, «di evitare le adozioni premature per le quali il consenso della madre è manifestato in seguito ad una pressione esercitata prima della nascita del bambino, ovvero prima che il suo stato fisico e psicologico si sia stabilizzato dopo il parto».
Anna si rivolge ad un legale e procede davanti al tribunale di Milano, che con provvedimento del 16 ottobre 2008 ordina allufficiale dello stato civile di ricevere la dichiarazione di riconoscimento formalizzata il 13 novembre 2008. Ma intanto sono trascorsi quattro mesi e Matteo, per il quale non è mai stata fermata la procedura delladozione, nonostante le richieste di Anna, vive già in unaltra famiglia. E stando alla relazione dei servizi sociali del comune di Milano si trova molto bene. La successione degli eventi per Anna è catastrofica. I giudici del tribunale di Milano si affidano ad una relazione degli assistenti sociali nella quale la donna viene descritta come «confusa sul suo ruolo ed attenta più alla propria attività professionale che alla dedizione nei confronti del figlio». E così prima loro, poi la corte dAppello confermano che la donna non è idonea a fare da madre. Lei, disperata, arriva fino in Cassazione, che ribalta la sentenza, dispensando severi rimproveri alloperato dei giudici milanesi. A partire da quellunica relazione della Asl che «si è trasformata - scrivono gli ermellini bacchettando i giudici di Milano - nellunica ed esaustiva risultanza che ha orientato in modo determinante la decisione adottata senza alcuna istruttoria e senza alcun rapporto alle reali esigenze della fattispecie in esame, utilizzata esclusivamente onde ricavarne una presunzione di un generico giudizio di inadeguatezza della donna».
«Eppure - continuano i giudici della Suprema corte - proprio la peculiarità della vicenda imponeva di accertare con particolare approfondimento se erano venute meno le condizioni per mantenere lo stato di adottabilità». E continuano dichiarando quella relazione «da sola non probante ed ancor meno decisiva». Ma i giudici sono severi anche con la corte dAppello di Milano quando scrivono che «nessun mezzo istruttorio è stato disposto dalla corte di Appello, malgrado la madre di Matteo avesse chiesto lammissione di consulenza tecnica specialistica, oltre che reiterato la domanda già inutilmente avanzata al tribunale di essere sottoposta a tutte le valutazioni ed indagini ritenute opportune onde accertare la sua attitudine ad accudire il piccolo».
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