Adrenalina e dolore, le confessioni di un boia

Negli Stati Uniti insospettabili attivisti contro la pena di morte. Dopo 17 anni di lavoro e sessantadue esecuzioni un "giustiziere" della Virginia, Troy Davis, si sfoga: "Mi sentirò sempre un assassino"

Adrenalina e dolore, le confessioni di un boia

Le ultime parole di Troy Davis sono state per loro: «Che Dio vi benedica». I suoi esecutori. Addetti del carcere di Jackson, Georgia, semplici dipendenti statali, assassini per procura. Assassini, sì, con la patente della giustizia. Lo racconta Jerry Givens, che per diciassette anni ha eseguito sentenze di condanna a morte nelle prigioni della Virginia. Un ex boia, perché oggi, a 59 anni, fa il camionista (dopo una parentesi in carcere per falsa testimonianza). Ma non è una di quelle professioni dove l’ex conti molto: a ogni notizia di una nuova esecuzione, Givens ricorda i sessantadue uomini che ha messo a morte. Tutti colpevoli per lo Stato e per i giudici. Per lui, sessantadue uomini uccisi. Lo confessa: «È il boia quello che soffre». Delitto e castigo vale per tutti. Perciò si capisce la compassione, perfino da parte del condannato. «Dovevo trasformarmi in una persona che si prendeva la vita di un altro» racconta Givens a Newsweek.

È una specie di trasfigurazione, quella che serve per tirare la leva e fare scorrere i liquidi dell’iniezione letale: sei seduto dietro una tenda, ma è l’adrenalina quella che ti protegge davvero. «Il picco emozionale dell’esecuzione». Givens immagina che l’abbiano provato anche i boia di Troy Davis, la scorsa settimana: perché l’adrenalina aumenta in proporzione all’attenzione mediatica, e per Davis si erano mobilitati il Papa, Desmond Tutu, l’ex presidente Carter, i politici europei. Davis si è sempre dichiarato innocente: il dubbio rimane, il boia è all’oscuro di quanto sia successo in tribunale, il suo compito è eseguire. «Non sai come sia andata, non partecipi al processo». È un tarlo che si insinua fra le altre ossessioni: i volti dei condannati, anche di quelli sulla cui colpevolezza e ferocia e disumanità non c’erano dubbi, sono fantasmi che continuano a tormentare Givens e i suoi colleghi.

Perché a un certo punto l’adrenalina li abbandona, e li lascia al senso di colpa. Il «picco emozionale dell’esecuzione» non è reale: è una maschera della pietà, e dopo un po’ svanisce. «Può durare anche tre settimane, quella trasformazione». Ma poi se ne va. Che cosa resta? «Hai portato via una vita innocente. E questo significa che hai commesso un assassinio».

Il certificato di morte dei condannati è spietato: «Omicidio». Tocca al boia leggerlo. «Come puoi rimanerci?». Alcuni non si riprendono mai. Givens ha trovato la fede, altri l’alcol, la droga, perfino il suicidio. È successo a due esecutori dello Stato di New York, uno ha lasciato un biglietto: «Ero stufo di ammazzare persone».

Jeanne Woodford si è dimessa dall’incarico di direttore di tutte le carceri californiane: «Sapevo che non potevo fare eseguire un’altra condanna. Non potevo proprio». Ogni volta era sempre più dura: «Devi sembrare normale. Cerchi di dire a te stesso e ai tuoi uomini che è la legge». A un certo punto però non la capiva più. Si è unita a un gruppo di altri ex direttori, esecutori e guardie che oggi fanno campagna contro la pena di morte: per salvare i condannati, ma anche sé stessi. Gli impiegati della morte vivono perseguitati. Lo dice Allen Ault, oggi preside della facoltà di Giustizia e sicurezza alla Eastern Kentucky university, ex commissario del Dipartimento correttivo della Georgia. Dal 1992 al 1995 ha supervisionato cinque esecuzioni. Scrive su Newsweek: «Non ricordo sempre i loro nomi, ma nei miei incubi vedo le loro facce». La madre e la moglie erano preoccupate per lui. «Cercavo di razionalizzare, pensavo: se solo servirà a salvare una vita futura, forse ne è valsa la pena». Anche lui ha partecipato alla campagna per salvare Troy Davis, con una lettera: «Nessuno ha il diritto di chiedere a un servitore dello Stato di accollarsi una condanna perenne a un dubbio assillante e, per alcuni di noi, alla vergogna e alla colpa».

Jerry Givens vive braccato dall’orrore, non gli basta guidare il camion nella notte per dimenticare.

«La persona che compie l’esecuzione rimane imprigionata in essa per il resto della vita. Chi vorrebbe un peso del genere?». Givens sa che deve prepararsi a rivivere tutto, di nuovo, sempre: la prossima condanna è in programma per il 5 ottobre, ancora in Georgia.

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