Gian Micalessin
Un volo a tre zeri. Uno delle migliaia sul groppone di quel cammello volante che ha visto Scià e rivoluzione, guerra e studenti in piazza. Si tira su con un rantolo. Là davanti in cabina chi tiene le redini sente. Capisce. Qualcosa non va. Lui oggi vola a carico pieno. Si porta nella pancia 94 umani. Più di metà sono giornalisti e tecnici televisivi, gli altri ufficiali dell'esercito ed equipaggio. Stretti sugli strapuntini di plastica verde, le cinture sfilacciate, lo strepitio delle eliche nelle orecchie. Vanno a vedere manovre militari. Laggiù a Bandar Abbas, tra le sabbie del deserto, l'alito caldo del Golfo e i fumi delle raffinerie. Laggiù dove, vent'anni fa, lui glorioso cammello dei cieli è sopravvissuto alla guerra e all'embargo del Grande Satana, svolazzando con ricambi e pezze rimediate alla meglio. Ma quest'oggi non va. Lo capisce il pilota, lo vedono i passanti. Il C-130 s'arrampica lento, sussulta. Nella pancia l'ordine già gira. «Si torna indietro». Sono sue minuti, forse meno. Davanti c'è il grigiore miserabile della banlieue sud. La Teheran degli operai, degli statali, dei militari. I palazzoni grigi, le nubi di smog ricamate in coltrine di nebbia. Dietro, la pista dell'aeroporto di Mehrabad è una striscia grigia. Basta un minuto per riacchiapparla. Lui, in cabina, ci prova.
Laggiù in strada Iraj Mordin ascolta l'affanno delle quattro turboeliche ingolfate. Alza gli occhi. Una sarabanda arancione sgranocchia la coda, consuma la fusoliera in una vampa rossastra. Il veterano dei cieli con pancia e serbatoi pieni è già bara volante. Precipita verso una stazione di servizio. L'uomo dei comandi impartisce l'ultima manovra. Mezzo giro tanto per evitare i serbatoi. Ma davanti ci sono già Azadi square, la megalopoli, i monoliti di condomini grigi. Iraj laggiù, volta la testa, lo segue fino a quell'ottavo piano. Se ne accorge anche Reza Sadeqi. È in fondo alla bottega, ascolta il brontolio di motori imballati, corre all'entrata, respira un fiato caldo, una manata lo ricaccia indietro. «Un terremoto, no peggio, l'inferno, ho sentito la vampata dello schianto nella gola e mi sono trovato a terra». Iraj guarda inebetito l'ottavo piano diventato vulcano fiammeggiante. Ascolta l'attimo di silenzio sinistro, le urla, il panico, il frastuono del dopo. Negli occhi del tenente Nasser Sedigh Nia è rimasta solo quella ragazza al balcone. Le fiamme dietro, il parapetto, lo sguardo silenzioso, il balenio rossastro che la divora. E un attimo dopo lei nel vuoto. Nei palazzi ci sono solo loro, mogli, figli piccini, ragazzine senza lavoro. Gli uomini sono in fabbrica, in ufficio, in caserma. Nel palazzo colpito vivono ufficiali della marina. La benzina divora le loro case e le loro famiglie. Esce a quintali dai serbatoi squarciati, avvolge in una doccia di fuoco cucine e corridoi, androni e cortili. Chi può fugge dalle scale esterne inseguito dal torrente di fiamme.
Quando arrivano i pompieri la strage si è consumata. I poliziotti antisommossa tengono lontani i curiosi, bastonano i giornalisti, allontanano a randellate i parenti senza notizie. I numeri tardano. Dall'aereo non è uscito vivo nessuno. Dall'inferno, là sotto i cadaveri escono piano. Cinque, dieci, a sera tardi una ventina. Centoventotto in tutto. Ma domattina ne potrebbero spuntare altri. Torsoli carbonizzati e calcificati, mummie annerite e scarnificate. Vittime di quell'aereo senza fiato, di quei pezzi di ricambio che non arrivano più.
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