Michele Anselmi
da Venezia
E poi dicono che la televisione uccide il cinema. Prendete Allen Coulter, il regista texano di Hollywoodland, secondo film statunitense in gara alla Mostra. Non aveva mai diretto un lungometraggio, essendosi fatto le ossa con le migliori serie tv degli ultimi anni: da I Soprano a The sex and the city, da Six feet under a X-Files. Passando al grande schermo, ha saputo mettere a frutto la gavetta senza farsi condizionare dal mestiere. Risultato: Hollywoodland è piaciuto più di The Black Dahlia, anche i cinefili più sfegatati, i «depalmiani» di ferro, alla fine si sono arresi all'evidenza.
Coulter ringrazia e riassume così il senso del film: «Ognuno di noi ha un personale desiderio di celebrità, sia esso un posto nel firmamento di Hollywood o qualcosa di più privato. Il modo in cui ci rapportiamo alla fama può influenzare, nel bene o nel male, la nostra vita. C'è qualcosa di essenzialmente tragico in questo nostro culto della celebrità. In fondo tutti noi viviamo a Hollywoodland». Intesa come una terra mitica e bastarda, che esalta e deprime, che arricchisce e uccide.
Storia vera, quella ricostruita dal film, ambientata in una solare Los Angeles fine anni Cinquanta: qui, il 16 giugno del '59, morì in circostanze misteriose l'attore George Reeves, noto per aver incarnato Superman in una ridicola ma fortunata serie tv, mai arrivata in Italia. Lo slogan diceva: «Più veloce di un proiettile». Non tanto, evidentemente, da evitare che una pallottola gli sbriciolasse la testa. Suicidio? Omicidio? Incidente? Caso mai chiarito. Il che offre a Coulter il pretesto per impaginare una tragedia americana sui temi dell'identità e del successo, mettendo a confronto la vita di Reeves, congelato nel ruolo dell'immutandato eroe, con quella dello scalcinato detective Louis Simo, che investiga sulla morte per trarne un bagliore di celebrità.
Cast al completo ieri al Lido, con Diane Lane, la più bella e brava quarantenne del cinema americano, seduta tra Adrien Brody, Ben Affleck e Bob Hoskins. Tutti applauditi, perfino dai giornalisti, di solito poco inclini agli entusiasmi. Affleck, che per restituire la crisi umana/professionale di Reeves è ingrassato di quindici chili, esclude riferimenti autobiografici (ha vissuto alti e bassi, i suoi amori hanno alimentato il gossip), e però riconosce: «Per alcuni versi, mi sento vicino a George. La vita di un attore non è riconducibile alla sua immagine pubblica. Ma quando diventi Superman può succedere che la gente confonda tra illusione e verità». Brody, che ricorderete pallido e macilento nel Pianista di Polanski, porta a spasso nel film quella faccia da Stanlio con l'aria di chi si sente troppo furbo per non ritrovarsi nei guai, tra minacce e pestaggi. Dice: «Hollywood insegna che soltanto se hai glamour riesci a diventare famoso. In fondo Reeves e Simo si assomigliano: cercano di dare un senso alla loro vita inseguendo la celebrità».
Macchine d'epoca, camicie sgargianti, borsalino, starlet in cerca di amanti danarosi, il rude e tirannico vice capo della Mgm che tradisce la moglie con una cinesina pur continuando ad amarla, Rita Hayworth, Billy Wilder, Spencer Tracy e Fred Zinnemann evocati o rappresentati, soprattutto lui, George Reeves: sognava di diventare il nuovo Clark Gable, si ritrovò a indossare la tuta rosso-blu sotto muscoli posticci. «La chiave noir è solo un pretesto per raccontare la fine di un'epoca», spiega il regista. «In realtà io parlo della natura delle ambizioni umane, ispirandomi a quel vecchio detto del cinema che recita. Vivere a Los Angeles rende famosi, morire a Los Angeles trasforma in leggenda». Chissà se è proprio così. In ogni caso, Diane Lane pare rimpiangere quegli anni mitici, quando «le attrici avevano più potere di oggi a Hollywood, il fascino regnava sovrano e gli uomini portavano il cappello».
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