Afgano convertito, la condanna dell’Islam nega i principi dell’Occidente

Il caso dell'arresto in Afghanistan del musulmano convertitosi al cristianesimo, che rischiava la pena di morte, è emblematico del radicalismo e dell'inconciliabilità dell'Islam con la civiltà occidentale. Anche se il processo è stato sospeso e l'imputato scarcerato, a conseguenza delle pressioni delle potenze occidentali, è significativo che questo accada nel Paese che abbiamo appena «liberato» dai Talebani. Qui non si tratta di terroristi o di Bin Laden. Parliamo delle leggi e della cultura del Paese, dove decine di migliaia di persone manifestano contro l'apostata e dove gli Imam incitano a farlo a pezzi. Questo dovrebbe servire a far aprire gli occhi a chi finora non ha voluto rendersi conto dei rischi cui stiamo andando incontro. I precetti del multiculturalismo e del «politically correct» sono stati così profondamente radicati dai cattivi «maîtres à penser» nell'inconscio e nel conscio collettivo, che neppure di fronte a fatti come questo le reazioni vanno oltre una semplice esecrazione d'ufficio. Si continua a voler ignorare che i precetti dell'Islam, e più ancora la sua prassi, sono in costante antitesi con i principi su cui si basa la nostra civiltà occidentale, figlia di duemila anni di cristianesimo, della cultura giuridica di Roma, del Rinascimento, dell'Illuminismo, dello sviluppo scientifico e industriale e della nostra drammatica storia recente.

Civiltà che, sviluppandosi ed apprendendo dai propri errori, è faticosamente giunta alla moderna forma di democrazia, che non trova corrispondenza nei Paesi islamici del Medio Oriente nei quali pervicacemente si impongono precetti contrari ed antagonistici rispetto ai nostri.

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