Afghanistan, gli aerei sbagliano: 100 morti

«L’orrore» - sussurrava Kurtz, il colonnello maledetto di Apocalypse Now ricordando le montagne di braccia tagliate dai vietcong ai bimbi dei villaggi che accettavano le vaccinazione americane. «L’orrore» - ripeteva Kurtz rievocando le rappresaglie messe a segno per rispondere a quelle crudeltà. «L’orrore» - ripete oggi chi, in Afghanistan, racconta degli oltre cento cadaveri raccolti tra le rovine di Gerani, un piccolo villaggio della provincia di Farah, una delle quattro province occidentali sotto comando italiano. Fra quei morti ci sarebbero una trentina di guerriglieri talebani, ma anche tanti, troppi civili innocenti. Sono donne e bambini, anziani e abitanti inermi sorpresi, lunedì sera, da un diluvio di bombe americane. «Un massacro inaccettabile e ingiustificabile» - l’ha definito il presidente afghano Hamid Karzai poche ore prima dell’incontro alla Casa Bianca con Barack Obama. Parole che minacciano di riaprire le ferite dello scorso agosto quando i 70 civili dilaniati dalle bombe ad Azibabad, nella provincia di Herat, segnarono la fine dei rapporti con l’amministrazione Bush.
Nell’orrore afghano di Gerani, come in quello del Vietnam di Apocalypse Now, si nascondono però le contraddizioni di una guerra sporca e maledetta. Per capirlo basta ripercorrere le tappe di una strage dove gli aerei della coalizione sono gli esecutori del massacro, ma anche l’ultimo ingranaggio di un perverso meccanismo di causa ed effetto.
Tutto inizia lunedì sera quando un reparto dell’esercito afghano, accompagnato da unità delle forze speciali dei marines, converge verso Ganjabad, un villaggio cinque chilometri ad ovest di Gerani, dove gli integralisti hanno sgozzato tre civili accusati di collaborare con le autorità. In quel distretto la triplice esecuzione è quasi la norma. Il capoluogo distrettuale Bala Baluk è il più importante santuario talebano e i territori che lo circondano sono da tempo sotto il completo controllo degli insorti. L’arrivo di marines e soldati afghani scatena un’immediata battaglia costata la vita, secondo Abdul Ghafar comandante della polizia provinciale, a tre poliziotti e ad almeno venticinque insorti.
Per sfuggire a quell’inferno i civili abbandonano il villaggio occupato dai talebani e si dirigono in colonna verso Gerani, cinque chilometri più ad est. A quel punto il caos della battaglia innesca la tragedia. I marines imbottigliati assieme all’unità afghana e incapaci di districarsi dal fuoco nemico richiedono l’intervento aereo. I piloti piovuti dal nulla bersagliano Ganjabad, ma probabilmente scambiano i civili alla ricerca di rifugio tra le case di Gerani per un altro gruppo di talebani. In pochi minuti le case di fango e mattoni vengono spazzate via dalle bombe. Fonti locali parlano di camion pieni di cadaveri raccolti tra le macerie, ma il bilancio esatto del massacro avvenuto in una zona sotto totale controllo talebano è difficilmente verificabile.

Una missione della Croce Rossa Internazionale arrivata sul posto descrive un villaggio raso al suolo, ma il portavoce Jessica Bary si guarda bene dal fornire cifre. «L’unica cosa certa - dichiara - è che sono morti a dozzine e che tra le vittime c’erano donne e bambini».

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