Roberto Scafuri
da Roma
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha fatto sapere che «non si governa a colpi di fiducia». Il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che «i voti di fiducia vanno ridotti al minimo» e il suo collega del Senato, Franco Marini, prima di lui aveva esplicitamente chiesto di scongiurare la questione di fiducia sul decreto per la missione in Afghanistan. Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha più volte fatto trapelare che considera il ricorso alla fiducia per lAfghanistan un«extrema ratio».
Ma ieri l«extrema ratio» è diventata «ordinaria ratio». E il peso delle raccomandazioni istituzionali è scemato di fronte allimportanza della partita che si sta giocando. Una partita nella quale le obiezioni di coscienza dei cosiddetti «dissidenti» sembrano essere le classiche foglie di fico di una maggioranza incapace di crescere. Dove, andando per semplificazioni, non è tanto lo scontro tra sinistra radicale e riformisti a imbrogliare la matassa, quanto un occulto gioco trasversale che tende a mantenere Prodi un «Prodino», ovvero un governo di profilo basso, re travicello ostaggio ora dei tassisti ora dei pacifisti ora degli giustizialisti ora dei garantisti ora dei pacifisti ora di qualsiasi categoria o lobby in grado di difendere un orticello. Messe così le cose, sembra persino scontato che mercoledì il governo dia lannuncio ufficiale della fiducia e del proprio stato di minorità cronica.
Restano solo da definire alcuni dettagli tecnici - su quanti e quali articoli del decreto porre la fiducia - che ieri si è provato a sciogliere in due vertici abbastanza «anomali». Il primo, durato fino a sera in Senato, tra il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti, e i «dissidenti»; il secondo, in tarda serata, a Santi Apostoli tra Prodi, Fassino e Rutelli (allultimo momento allargato a DAlema e a una pletora di altri ospiti).
Nel frattempo, nel primo pomeriggio, il capogruppo di Rifondazione, Giovanni Russo Spena, aveva già riunito i quattro dissidenti (Grassi, Giannini, Malabarba e Turigliatto) e ottenuto da essi il «sì» a una fiducia che il governo non ha ancora posto. Segno che il partito di Giordano è tra quelli che vogliono tenere in vita Prodi, ma che non riesce ancora a imporre alcunché alla minoranza interna che (presumibilmente per errore) è stata candidata al Senato invece che alla Camera. Lodevole così il tentativo di Russo Spena, che spiegava come a settembre ci sarà un seminario del gruppo «perché non vorremmo creare un precedente, per cui su altri provvedimenti in cui emergesse il dissenso vi possa essere la necessità di porre la fiducia...». Ed esemplare il comportamento del «ribelle» Grassi, che durante la riunione con Chiti ammetteva: «Non voglio mica mettere in crisi il governo Prodi». Cosa ripetuta in questi giorni anche dal ds Massimo Villone.
Ma allora, la fiducia, cui prodest?, a chi giova? Prc pare subirla: «Siamo davanti a un ingorgo parlamentare che richiede grande determinazione», ha giustificato ieri Bertinotti. Il leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, laccetta per il bene di Prodi; il Pdci invece pare considerarla quasi un successo. Addirittura «rafforza la maggioranza», secondo la tesi di Marco Rizzo. Al contrario, per il socialista Boselli, «regala un diritto di veto a un pugno di senatori, aprendo la strada alla nascita di una lobby in grado di condizionare pesantemente tutte le scelte del governo». Così anche dipietristi e Margherita sono più che mai convinti che la fiducia sia un pericoloso segno di debolezza. La Cdl parla di pre-crisi dellesecutivo (Forza Italia) e della fiducia come «atto gravissimo di espropriazione del Parlamento» (Cesa, Udc). «Non si blinda il Parlamento», dice Follini, propenso comunque a votare per il «sì» alla missione nonostante loramai scontata fiducia. Sarà solo un malefico auspicio, ma al leghista Calderoli sembra di «rivivere quei giorni del 98...
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