Afro, nero, negro e il finto bon ton

Gentile dottor Granzotto, le scrivo perché è l’unica persona a poter dirimere questa diatriba. Con alcuni amici, si è accesa una feroce discussione sulla parola «negro». Sulle origini latine della parola non c’è dubbio (niger, nigra, nigrum), e neanche sul significato originale latino, «nero», ce ne sono. Allora perché italianizzarlo. In secondo luogo non capisco perché dovrebbe essere più lusinghiero dire «nero», aggettivo con cui si sottolinea il colore del soggetto in questione o addirittura «di colore» che sottolinea semplicemente che il nodo della differenza sta nella pigmentazione cutanea. Mi sembra, concludendo, che sia l’ennesimo caso di distorsione della lingua, simile all’uso del «diversamente abile» per un portatore di handicap, «omoaffettivo» per omosessuale o gay oppure «non vedente» e «non udente» per cieco o sordo. Non sarebbe più semplice continuare a chiamare le cose col loro nome?



Una doverosa premessa, caro Alvaro: faremo dell’accademia. Avendo le ordinanze della political correctness origine isterica, non c’è argomentazione che tenga: se i piazzisti del bon ton linguistico hanno stabilito che «negro» non va, non va. E a coloro che supinamente si conformano alle ordinanze, è tempo sprecato star a spiegare quanto sono babbei. Quando c’è gente che essendosi bevuta il cervello ritiene di essere migliore (e di far migliore il mondo!) perché chiama i pellerossa «nativi americani» o perché definisce meticcio il proprio bastardino, non resta che prenderne atto, chinando il capo di fronte all’ineluttabile. Resta però il fatto che la parola «negro» (vocabolo che trae direttamente dal latino «nigrum», nero. «Nigra sum sed formosa» recita il Cantico dei Cantici) non ha nulla, in sé, di dispregiativo o di discriminante. Tant’è che il più noto (e politicamente correttissimo) periodico dedicato all’attività missionaria in Africa si chiama «Negrizia», non «Nerizia». E si seguita a dire «negritudine» o «arte negra» senza per ciò risultare politicamente scorretti. Il guaio di «negro» è uno solo: l’assonanza con l’inglese «nigger». Termine, questo, la cui inflessione denigratoria è intenzionale, premeditata. Fu coniato a tal scopo: non è, insomma, la versione oltraggiosa del vocabolo indicante il colore nero, che in inglese è «black» e che, guarda caso, è forma politicamente corretta per definire una persona di pelle nera. L’assonanza, solo l’assonanza segnò da noi, che nel fregnacciume aspiriamo a primeggiare, la condanna dell’innocente «negro».
Siccome si può combattere con onore una battaglia pur senza avere la certezza di vincerla, consiglio a lei, caro Alvaro, e a tutti i lettori ai quali la correttezza politica fa venire l’ulcera, l’ideale affiliazione alla Capc, ovvero la britannica «Campaign Against Political Correctness», sodalizio impegnato nella lotta contro la demenza globalizzata. Fra le altre cose, la Capc assegna annualmente un Nobel alla più bischera delle correttezze politiche. Nel 2007 è risultato vincitore il Consiglio comunale della città di Sacramento, in California, per aver sostituito in tutti i documenti pubblici la parola «manhole» con «personhole». Pratica resasi necessaria in quanto «man», nel significato di essere umano, risulta discriminatorio e gli si deve preferire «person». Solo che come tutti sanno, «manhole», in inglese, significa «tombino».

Capito a cosa si è arrivati, caro Alvaro? A preoccuparsi perché il pozzetto fognario non si senta discriminato. Faccenda che da sola dà la misura dell’abisso di idiozia del politicamente corretto e di quanti ne hanno fatto il loro «impegno nel sociale».
Paolo Granzotto

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