Ci sono voluti due anni prima di essere «assolto per non aver commesso il fatto», 24 lunghissimi mesi passati tra uffici di avvocati e caserme dei carabinieri a ribadire la propria innocenza, prima di essere scagionato con formula piena dall'accusa di aver malmenato - con altri cinque amici - un ragazzo senza alcun motivo, così tanto per passare il tempo e smaltire una sbornia. Un'accusa pesante da portare sulle spalle, che diventa un macigno nel caso in cui l'indagato è un rappresentante delle forze dell'ordine, un maresciallo capo della guardia di finanza che - per contratto e per indole - la legge la dovrebbe rispettare e non infrangere.
Quando, nell'aula del tribunale di Genova, G.M.U. ha sentito il pubblico ministero formulare per lui la piena soluzione, è stata la fine di un incubo. Ha guardato il padre ed ha capito che anche per lui era la stessa cosa. La fine di un brutto sogno, certo, che ha però travolto anche un'aspirazione che il G.M.U. coltivava da tempo, studiando nei pochi attimi libero che il lavoro gli concede, ossia partecipare a due concorsi della guardia di finanza per diventare ufficiale. Era questa la sua ambizione, il suo progetto per il futuro che però si è infranto davanti a delle indagini che il suo avvocato Monica Tranfo, definisce «a dir poco approssimative».
Come vuole la norma, infatti, se un militare è anche solo indagato non ha diritto a partecipare ai corsi che si svolgono a Roma e così il maresciallo capo della guardia di finanza - anni di servizio impeccabile nel Gico di Genova - ha dovuto rinunciare e non potrà più partecipare per passati limiti di età. Il danno e la beffa, l'amarezza e la rabbia di essere stato ingannato proprio da quel sistema, da quella legge che lui per anni ha servito con devozione e nella quale ancora oggi, nonostante tutto, vuole credere.
Tutto ha inizio quando un ragazzo, passando davanti a un bar, riferisce ad una pattuglia dei carabinieri di aver riconosciuto nelle sei persone sedute ad un tavolino, gli stessi che lo avevano malmenato un mese prima. Da quella identificazione nasce l'equivoco tra le sei persone che poi saranno indagate e rinviate a giudizio - tutte appartenenti alle forze dell'ordine - e un ragazzo che in tribunale, davanti al Pm dirà: «Non era sicuro fossero loro, prima di denunciarli avrei voluto vederli bene in faccia ma non ne ho avuto loccasione. Ora che li ho davanti però sono certo che non sono loro i miei aggressori. È bastato meno di un'ora di confronto in un'aula di tribunale per smontare un castello accusatorio che si basava su un riconoscimento fatto guardando di sfuggita le persone sedute ad un bar in una sera di primavera.
E non è neppure bastato ai sei sospettati dimostrare che nella ore in cui la presunta vittima diceva di essere stato picchiato, loro erano quasi tutti in caserma al lavoro, o a casa con la famiglia. Giustizia è stata fatta ma le occasioni perse in due anni non torneranno più, nonostante la piena assoluzione dei sei indagati.
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