Agnetti, l’uomo che dimenticava a memoria

«Quello che ho fatto, pensato e ascoltato l’ho dimenticato a memoria: è questo il primo documento autentico». Il concetto di «dimenticato a memoria» è fondamentale per Vincenzo Agnetti (1926-1981) e la sua opera: tutte le esperienze più importanti della vita sono «dimenticate a memoria», cioè assimilate fino a diventare un imprescindibile background. Il Libro dimenticato a memoria si presenta vuoto laddove di solito appaiono le parole.
L’avventura di Agnetti nell’arte comincia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta con il gruppo Azimut a Milano. I suoi compagni di strada sono Manzoni e Castellani. Ora una mostra al Mart di Rovereto, a cura di Achille Bonito Oliva e Giorgio Verzotti, ripropone il complesso percorso artistico di Vincenzo Agnetti, accompagnata da una monografia edita da Skira. Dopo essere stato il teorico di Azimut e aver scritto con acume critico di Castellani e Manzoni, Agnetti lascia l’Italia per altri Paesi e altre attività: è la fase che chiama «arte-no». Si fa strada in questo momento l’idea che gli oggetti siano «rammentatori» dei processi del pensiero. L’opera d’arte stessa è una manifestazione del pensiero e questa è una delle ragioni per cui Agnetti, tornato in Italia, eleggerà il linguaggio verbale come principale mezzo dell’operazione artistica.
Nasce così Principia (1967), che rimanda alla poesia visiva e al romanzo sperimentale: su un pannello sono scritte alcune parole, al pannello è applicato un cursore che scorre orizzontalmente su cui ricorrono le stesse parole. Quando il cursore si sposta modifica il rapporto tra le parole. Una struttura analoga, ma in assenza di parole, è Permutabile, dello stesso anno, dove «l’imprevedibile che ci può procurare un testo è tradotto visivamente nelle possibilità combinatorie dell’oggetto, tramite lo scorrere dei cursori». La Macchina drogata (1968) è costituita da una calcolatrice in cui i numeri sono sostituiti da lettere. «Eseguendo le operazioni si ottengono dei testi che diventano a loro volta opere d’arte, documenti, oggetti dotati di propria autonomia». Corfine anticipa in un certo senso il Libro dimenticato a memoria in cui il testo è scomparso perché è stato assimilato. Qui è l’opera stessa che tende a scomparire, mentre alcune lettere migrano sui bordi. Dal 1968 partono due serie di lavori che hanno differenti materiali come supporto: gli Assiomi in bachelite e i Feltri. I primi assumono un linguaggio scientifico, i secondi mimano quello letterario. Ed è proprio in feltro e proprio attraverso le parole che Vincenzo Agnetti realizza nel ’71 il suo straordinario e paradossale Autoritratto. Con linguaggio poetico, quasi in analogia con quello dell’artista, Achille Bonito Oliva parla di «una casa di appuntamenti con l’Assenza dove può affermare, con irripetibile ironia, nel vano tentativo di incontrarsi: “Quando mi vidi non c’ero”».
Nel ’73 Agnetti, ex allievo della scuola del Piccolo Teatro di Milano, realizza la sua installazione più impegnativa: il Progetto per un Amleto politico, dallo stesso artista definito «teatro statico» cioè «spettacolo senza movimento senza personaggi e senza testo».

L’ultima grande opera, Le quattro stagioni (1980), presentata al Pac di Milano, consiste in quattro vetrate in cui è proprio la caratteristica della trasparenza a essere alterata attraverso carta fotografica opacizzata.
LA MOSTRA
«Vincenzo Agnetti». Rovereto, Mart, corso Bettini 43. Fino all’1 giugno. Info: 800397760.

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