Un’Aida da vetrina

«Uèila, che Aidona!», esclama lento degustando le sue stesse parole un milanese dei vecchi tempi, uscendo; e uno vicino a lui rincalza: «Il Zeffirelli ha detto che per lui è uno spettacolo storico». Una signora vicina a voce un po' più bassa commenta: «Il Verdi non l'avrebbe mai detto». È vero: Verdi, lui, il Grande, non prometteva mai niente. Non voleva spiegare, non voleva dichiarare. In trasferta, non voleva assolutamente critici al seguito. Chiedeva al pubblico di applaudire se era contento, di fischiare se era deluso, tutto qui. Ma temo che la differenza fra i due atteggiamenti sia ancora più fonda: Verdi cercava il vero, La Scala e Zeffirelli hanno cercato un fastoso successo popolare. Obiettivo legittimo e anche meritorio, in un momento di divisioni e incertezze. Ma purtroppo, in una società come la nostra, dove si moralizza austeramente ma si venera il gossip, dove c'è insieme il boom delle palestre e delle paninoteche, il successo più clamoroso, o almeno quello di cui più si parla, avviene per estremi, e presso le stesse persone. Che applaudono gli spettacoli dissennati in cui a proposito dell'opera il regista rovescia in scena gli avanzi delle immagini attuali, motori, astronavi, simboli nazisti, sesso in ritmici kamasutra imbarazzati, per paura di non essere abbastanza moderni; e poi acclamano le care immobili vecchiezze inverosimili di scenografie abnormi e di recitazioni enfatiche o assenti, per nostalgia del buon vecchio tempo antico.
L'Aida della Scala è vecchissima. Se Verdi cercava l'Egitto filologico della ricerca storica, e aveva con sé il maggior egittologo reperibile, Mariette, Zeffirelli cerca l'Egitto rutilante dei luccichii, rende enormi le statue, impegna decine di persone, meglio se armate, in un via via costante senza che si sappia dove vadano e perché. Dei personaggi non gliene importa: gli odii e gli amori sono proclamati senza che gli interessati si guardino in faccia. Si piantano lì davanti, il soprano ed il mezzosoprano spesso si accucciano a terra, il tenore sta a gambe larghe con due gesti, l'uno a braccia larghe, l'altro con una mano aperta in avanti a pollice in su. Quando Aida e Radamès si scambiano l'amore nel segreto della tomba, nella parte alta della scena c'è una coreografia di sacerdotesse che si agita mimando le intime parole sacre dei due morituri. Tutto è vetrina, è molto meglio che pensare. E perciò il pubblico della più fieristica città d'Italia lo trova naturale ed è contento.
Certo, anche per fare uno spettacolone così bisogna avere mano, e Zeffirelli sa bene il fatto suo. Traccia le scene con i più tradizionali elementi, e ce le disturba con bastoncini orizzontali sospesi, come l'Ikea fosse nata in Oriente, per ottenere un certo effetto-sogno lontano. Fa calare certi energumeni alati quando le cose si mettono male, come angeli della morte, e così fa anche un poco discutere sul loro perché. Chiede a Maurizio Millenotti costumi che reinventino l'Africa millenaria in favolose fogge e colori, e insieme chiariscano i ruoli dei personaggi, i climi della storia: e le invenzioni dalle fogge che avvolgono il corpo come in una solitudine agli indumenti leggeri che lo lasciano in libertà, e le tinte dal rosso carico all'azzurrino indifeso allo scuro fatale, sono di grande bellezza. La regìa rinuncia alle spettacolari possibilità della sfilata nel trionfo di Radamès vincitore per concentrare l'importanza sulle danze: e qui il coreografo Vassiliev allestisce un ballo di ritmo continuo e incalzante ed offre allo scopertissimo Roberto Bolle e all'assai più coperta Myrna Kamara lo strumento per mettere in rilievo la loro prestanza fascinosa e la loro bravura. Involontariamente viene invece sacrificata Luciana Savignano, che nella parte d'una specie di apparizione sacerdotale invadente è chiamata a ripetere gesti consueti, e che con una grande spada sembra talora affettare qualche salume vagante per l'aria. Farebbe un po' ridere, se non fosse per il suo straordinario carisma.
È l'Aidona della Scala. Vi sarete chiesti perché il discorso non sia caduto ancora sulla musica. Ma è perché non è interessante. Riccardo Chailly ha sempre la sua invidiabile affettuosa carica di comunicativa e piace tanto. Ma la sua Aida è un po' offerta a pacco: cordiale, vivida, con gli impeti e le tenerezze al posto giusto; però sempre con una compattezza semplificatrice e, anche quando tutti sono sincroni e sotto controllo (ieri sera non sempre, forse per l’emozione della prima) rende difficile identificare e ascoltare i percorsi interni delle voci e degli strumenti. La compagnia di canto ha un suo valore, e se si vuole mettere la Scala in una fascia di teatri d'un certo prestigio senza pretendere il lavoro strenuo di ricerca e l'assoluta eccellenza può andare benissimo. Ma allora ammettendo che è una situazione precaria, senza rompere le scatole al mondo sull’infallibilità della Scala. È difficile mettere a fuoco in ciascuno di loro qualcosa di unico o caratterizzante tanto da potere essere raccontato. Violeta Urmana, Aida, sarebbe quella dal colore e dalla sostanza vocale più pertinenti ma, preoccupata dal fatto che in origine cantava in tessiture più gravi, si assottiglia in una inutile monotonia. Ildiko Komlosi s'impegna lodevolmente come Amneris, Roberto Alagna attraversa il palcoscenico e la vicenda mettendo alla prova la sua voce bella ma inadatta alla parte, e prende tre volte il fiato per cantare «un trono vicino al sol», e Carlo Guelfi si dà da fare per tuonare la cattiveria selvaggia di Amonasro; figurano dignitosamente Giorgio Giuseppini e Marco Spotti.


Folla, successo popolare raggiunto, confermato da 13 minuti d’applausi: un'Aida da portare a casa nella memoria e nelle fotografie come una cara, vecchia reliquia: non si esclude di vederla apparire in qualche bancarella dentro a una boccia di vetro che, voltandola, fa nevicare.

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