Aiuti, cibo&business Ecco come funziona l’industria umanitaria

L’esempio è paradossale, ma aiuta a capire di cosa si sta parlando. Immaginate di fare parte di una qualsiasi organizzazione umanitaria; è il 1943; dalla Cancelleria del Reich un alto gerarca nazista vi comunica che la vostra richiesta di portare cibo e medicinali ai deportati nei campi di concentramento è stata accolta; e vi spiega - come consuetudine oggi in tutte le zone di guerra - che sarà la direzione dei campi a stabilire quanta parte degli aiuti andrà ai prigionieri e quanta, invece, al personale che li gestisce. Domanda: cosa fate? Risposta: nello spirito dell’organizzazione umanitaria, accetterete. In questo modo salverete delle vite umane e allevierete molte sofferenze. Ma finanzierete gli aguzzini e contribuirete a rendere più efficienti i campi di concentramento. È giusto tutto questo? La risposta purtroppo è sempre sì, e non è un paradosso.
Non sono paradossi ma cifre, testimonianze e documenti quelli di cui si occupa Linda Polman nel suo libro-inchiesta L’industria della solidarietà (Bruno Mondadori) che svela contraddizioni, scandali e interessi economici che si nascondo dietro e dentro la gigantesca industria degli aiuti umanitari. Solo tre dati per dare l’idea del fenomeno. La prima: il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo stima che esistano attualmente 37mila organizzazioni umanitarie tra Ong internazionali e locali. La seconda: complessivamente, per gli aiuti umanitari in caso di guerre e catastrofi, vengono stanziati sei miliardi di dollari. La terza: secondo i calcoli dell’università americana Johns Hopkins, se tutte le organizzazioni nazionali e internazionali dedite agli aiuti umanitari si unissero, formerebbero un Paese che sarebbe la quinta potenza economica del mondo.
Tenuto conto che oggi il 90% delle vittime dei conflitti sono civili, e che a partire dalla caduta del Muro di Berlino, con la diminuzione degli scontri tra eserciti regolari e l’esplosione delle guerre civili, la crescita delle organizzazioni umanitarie è in continuo aumento (oggi per ogni zona di crisi importante se ne contano circa mille), si capisce come i pur nobilissimi scopi che stanno alla base delle organizzazioni umanitarie debbano necessariamente fare i conti con le «leggi di mercato» che regolano i rapporti tra capi ribelli, comandanti militari, dittatori e guerriglieri da una parte, e chi apre i rubinetti degli aiuti dall’altra. «Intorno agli aiuti umanitari - scrive Linda Polman, eletta dal Guardian tra i migliori esempi contemporanei di giornalismo - è sorta una vera e propria industria di organizzazioni che viaggiano sull’onda dei flussi di denaro ed entrano in concorrenza tra loro in spazi umanitari sempre diversi per aggiudicarsi la maggior parte possibile dei miliardi a disposizione». E ancora: «Il denaro e gli aiuti delle organizzazioni umanitarie sono un business anche per le parti in guerra. Gli aiuti sono diventati un ingrediente fisso nelle strategie di guerra. Ognuna delle parti cerca di aggiudicarsi la fetta più grande di aiuti e fare in modo che i nemici ne abbiano il meno possibile».
Darfur, Sierra Leone, Afghanistan.

Cambiano gli scenari, ma i dilemmi sono gli stessi: fare qualcosa è davvero sempre meglio che non fare nulla? I soldi stanziati dai Paesi occidentali, e quelli donati da ognuno di noi, servono a finanziare ospedali o a pagare biglietti aerei di prima classe per i funzionari delle Ong? E soprattutto, a chi sono utili cibo, denaro e medicine: alle vittime innocenti, ai signori della guerra, o a entrambi?
Come riferì un operatore umanitario assegnato al campo Onu per i rifugiati durante il conflitto tra hutu e tutsi nel 1994, in Ruanda: «A Goma valeva il seguente principio: o sfami gli assassini, o rischi di dovertene andare».

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