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«Gli aiuti umanitari sono un business Ma solo per le Ong»

Linda Polman conosce il mondo della beneficenza da molto vicino. Non solo per aver scritto due libri sul tema (Onu. Debolezze e contraddizioni di una istituzione indispensabile per la pace e il recentissimo L’industria della solidarietà) ma anche per aver fatto la volontaria in Africa, per anni, come esperta della Nazioni Unite. Ha insomma visto di persona come funziona la macchina degli aiuti, l’industria della bontà. Ma l’idea che se n’è fatta è molto lontana dalle promesse delle pubblicità progresso.
La solidarietà è un business?
«Sì. Decine di migliaia di persone sono impiegate in decine di migliaia di Ong - piccole,internazionali, locali -. È un sistema che muove miliardi e che conta un numero esorbitante di organizzazioni: 37mila. I soldi sono tanti, insieme formerebbero il Pil della quinta potenza mondiale. Le Ong fanno a gara tra loro per aggiudicarsi questa montagna di fondi, i dollari degli aiuti. Come qualunque impresa privata, guardano ai soldi. Se una Ong vuole sopravvivere in questa competizione deve darsi da fare per fare progetti che attirino l'interesse dei donors, dei benefattori. Ma questo non è necessariamente un fatto positivo».
E perché no?
«Perché c’è un meccanismo perverso: chi dona i soldi sceglie l'organizzazione umanitaria in base all'efficienza, alla rapidità, certo, ma anche sulla base della notorietà dell'associazione, dal fatto di essere rappresentata magari da personaggi che compaiono in tv. È successo spesso che le Ong pagassero dei testimonial o dei bravi pierre per accreditarsi tra i supporter finanziari. Il colonnello Ojukuwu in Biafra si fece assistere da un ufficio di pubbliche relazioni di Ginevra per invitare i giornalisti europei a raccontare e filmare la fame nel Biafra. Ovviamente il colonnello poi confiscò parte degli aiuti per il suo esercito e per comprare armi. Ma anche i palestinesi ricorrono a esperti di comunicazione».
Ma poi le Ong si renderanno utili nelle zone svantaggiate.
«Dipende da cosa si intende con “essere utili”. Le racconto un episodio vissuto in prima persona. Eravamo in Sierra Leone, c’erano moltissime vittime della guerra civile con braccia o gambe amputate. Le Ong erano chiamate lì per fornire arti artificiali. Siccome una Ong “guadagnava” più sovvenzioni a seconda del numero di arti artificiali che “piazzava” in Sierra Leone, si scatenò una competizione incredibile tra le organizzazioni umanitarie per diffondere le proprie protesi. Una Ong arrivò a distribuire braccia artificiali giù munite di orologio al polso, per battere la concorrenza. Altre Ong hanno risolto la faccenda portando gli amputati della Sierra Leone direttamente in Usa o Germania, per impiantare le proprie protesi e ricevere i finanziamenti governativi».
Insomma sembra che la bontà c’entri meno del business...
«È un mercato anche quello della solidarietà, che si combatte con le armi proprie del mercato. In più qui c’è un drammatico problema: i soldi spesso finiscono non ai bisognosi, ma ai dittatori responsabili di carestie e stermini».
Perché non si riesce a controllare dove finisce il flusso di denaro?
«È difficile, se non impossibile. Che si tratti di democrazie, dittature o governi militari, sono sempre le autorità locali a decidere a quali condizioni e in che modo gli aiuti economici devono essere spesi. Se la loro decisione è rubare, gli aiuti umanitari li aiuteranno a rimanere al potere. Il problema è che i disastri umanitari non succedono mai nelle democrazie, ma in posti orribili con pessimi governi o dove i governi sono sostituiti da una banda di ribelli o guerriglieri».
Quindi alla fine gli aiuti «aiutano» spesso i criminali?
«La solidarietà è un business anche per le parti coinvolte in una guerra civile. Sono un ingrediente fisso nelle strategie di guerra, ognuna delle parti in causa cerca di aggiudicarsi la fetta più grande di aiuti e di fare in modo che i nemici ne abbiano il meno possibile».
Ecco quello che lei chiama «il dilemma del lager nazista»...
«Immaginiamo di essere nel 1943 e di guidare un’organizzazione umanitaria. Ci chiamano per portare degli aiuti nei campi di concentramento nazisti, ma la condizione è che chi sta alla direzione di quei campi stabilisca quanta parte andrà ai prigionieri e quanta invece andrà al personale nazista».


E il dilemma come si risolve?
«Le organizzazioni umanitarie, per come agiscono nella prassi, non avrebbero dubbi: porterebbero gli aiuti ai nazisti».

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