Mi fa un certo effetto sentire come i bambini di oggi parlano della loro maestra, anzi delle loro maestre: «La Monica mi insegna questo, la Claudia quest’altro, poi c’è Giovanni che viene in classe il mercoledì». Quando li incontrano li salutano così: «Ciao Monica, ciao Claudia, ciao Giovanni».
Ai nostri tempi c’era una sola maestra, anzi una sola «signora maestra», e ricordo il sacro terrore con cui ci rivolgevamo a lei. Il primo giorno di scuola fui buttato fuori dall’aula. Avevo fatto cadere per terra il calamaio pieno di inchiostro, che allora era fissato a ogni banco. La maestra mi disse che ero brutto e cattivo, all’uscita assicurai a mia mamma che a scuola non ci sarei andato mai e arcimai più. Oggi partirebbe una denuncia alla procura e in sostegno del bambino si attiverebbe un pool di psicologi; ma quel giorno mi sentii rispondere dai miei genitori che avevo sbagliato io a smanettare con il calamaio avvitato sul banco, e che la maestra aveva fatto benissimo a sbattermi fuori.
Quando la signora maestra entrava in classe, noi bambini tutti in grembiule ci alzavamo in piedi, poi c’era la preghiera, ogni tanto dovevamo cantare la bandiera del tricolore, è sempre stata la più bella, noi vogliamo sempre quella, noi vogliam la libertà.
La nostra libertà era stare cinque ore con le braccia incrociate dietro la sedia, in religioso silenzio, ad ascoltare la lezione. Invidiavo mio fratello perché la sua maestra, una sessantottina ante litteram, in una botta di anarchismo aveva lasciato ai bambini un’alternativa: le braccia conserte sul banco invece che dietro la schiena. Per la mia maestra quella era invece una posa da scansafatiche.
E però mai, dico mai, l’ho percepita come un’aguzzina, anzi. Non di rado mi capitava, quando mi rivolgevo a lei precipitosamente, di chiamarla «mamma». Cercavo di recuperare immediatamente: «Mi scusi signora maestra»; lei fingeva di essere scocciata ma si capiva che era contenta del lapsus.
La signora maestra era una presenza fissa, un totem sacro, un perno attorno al quale girava la nostra infanzia, la guida che ci introduceva alla scoperta del mondo: le divisioni a tre cifre e l’eccezione di scienza e coscienza, le guerre puniche e gli Orazi e i Curiazi, gli affluenti del Po e le Cozie e le Graie, che cosa succede in un alveare e la fotosintesi clorofilliana.
L’infanzia ha bisogno di certezze, e la maestra - con le sue regole e la sua separazione chiara tra dovere e piacere - ci ha dato sicurezza, chiarezza, serenità. È stata una bussola, un paracadute, una luce. Ho sempre ritenuto che sia stato un grande errore sostituire la maestra unica con un pool di maestri. Per giustificare la sovrabbondanza di personale, si è inventata la balla della multidisciplinarietà. Ora vedo che ci hanno ripensato: la maestra unica era un punto fermo, un volto destinato a restare impresso per sempre nella nostra memoria e nel nostro cuore.
Io non ho certo dimenticato la mia. È un po’ che non la incontro per strada, non so neanche se sia ancora viva. Ma mi piacerebbe ritrovarla, ricordare con lei di quando mi mandò fuori dalla porta il primo giorno o di quando, sempre per punizione, mi metteva nei banchi tra la femmine (provvedimento anche questo oggi improponibile). Mi piacerebbe ricordare tutto questo con lei, riderci su, e poi abbracciarla e dirle grazie per essere stata la mia «signora maestra» e non aver fatto finta di essere una mia amica.
TU, PRESIDENTE
A proposito del «tu» alla maestra, credo che i bambini siano del tutto incolpevoli: il «lei», in Italia, per una ventina d’anni abbondante è stato bandito come residuo degli ipocriti formalismi d’antan. Non che il darsi del «tu» sia un fatto negativo, però a volte il «lei» serve per riconoscere, se non una distanza, un rispetto per l’autorità.
Una volta era d’obbligo anche tra i rivoluzionari. Un giorno dell’immediato dopoguerra, quando i comunisti aspettavano la «seconda ondata», l’allora segretario del Pci Palmiro Togliatti fu interrotto durante una riunione di una cellula di periferia da un giovane militante che gli eccepì: «Il tuo discorso contiene un errore». Togliatti replicò: «Mi aiuti a ricordare, compagno, quando io e lei ci siamo conosciuti».
Negli anni successivi alla mitica contestazione del Sessantotto si cominciò a dare del tu a tutti: al segretario di partito, al prete dell’oratorio, al capoufficio, al preside. Una storica svolta è dell’inizio degli anni Ottanta e porta la firma di Emilio Fede che, all’epoca telegiornalista Rai, intervistò in diretta il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini incalzandolo con un «tu, presidente». Avesse avuto davanti il Papa, ci sarebbe toccato sentire «tu, Santità».
Spadolini dovette abbozzare, subendo lo spirito dei tempi. Eppure, mi raccontavano i vecchi colleghi, quando lo stesso Spadolini si presentò ai giornalisti del Corriere come nuovo direttore (fine anni Sessanta), un cronista rischiò il licenziamento per avergli chiesto: «Direttore, possiamo darci del tu?». «Faccia lei» rispose gelido Spadolini, in stile Togliatti (...).
IL PANDA-PAPÀ
Sarebbe il caso di abolire ufficialmente la festa del papà. Non se la fila più nessuno, ormai nemmeno quelli della pubblicità. Che differenza con la festa della mamma, e ancora di più con quella della donna. L’8 marzo è un’alluvione di mimose e di inchieste giornalistiche; si fa la conta di quante donne ci sono in Parlamento e alla guida di grandi aziende e poi con una certa indignazione ci si chiede: ma non dovrebbero essere di più?
Guai al marito o fidanzato che si dimentichi auguri e regalo, l’8 marzo. A noi papà, invece, di regali non si parla neppure, meno male che qualche suora o qualche maestra si ricorda ancora di suggerire ai bambini delle materne e delle elementari di preparare un lavoretto. Tanto i bambini sono piccoli, non sanno ancora che noi poveri papà siamo gente che non conta più un fico secco, una categoria in via di estinzione come gli stenografi o gli spazzacamini: se ci riunissimo in un partito politico conteremmo più o meno come il Psdi (non ci crederete ma esiste ancora, il Psdi).
Sono d’accordo sulla maggiore attenzione prestata alle mamme: il fardello più pesante lo portano loro, non c’è dubbio. Ma noi papà non solo non contiamo niente, subiamo anche la beffa di essere considerati dei privilegiati. Beati voi che lavorate, beati voi che vi gratificate, beati voi che c’è il calcio.
Oltre alle mogli anche i figli ci mandano a stendere. La Eta Meta Research ha pubblicato uno studio eseguito con un pool di trenta psicologi: sette figli su dieci si dicono insoddisfatti dei propri padri. Forse perché siamo troppo assenti come dice il sociologo di turno? Forse perché passiamo troppo tempo sul lavoro? Neanche per sogno: i pargoli sono insoddisfatti, dice la ricerca, perché caro papà «non sei diventato abbastanza ricco e potente». Il 63 per cento accusa il genitore di «non aver fatto abbastanza carriera», il 58 di «non aver raggiunto una posizione tale da garantire loro un futuro privo di preoccupazioni». Dei bancomat, ecco che cosa siamo diventati. Beffa nella beffa, più della metà (54 per cento) salva la mamma, mentre solo il 9 per cento si dice pienamente soddisfatto del proprio padre.
Invoco un Telefono Grigio che faccia da contrappunto al Telefono Azzurro. Anche perché, diciamo la verità: i papà della mia età sono i migliori mai apparsi sulla Terra.
Fateci caso: fino a questa nostra sciaguratissima generazione, quanti padri hanno lavato un piatto? Sparecchiato un bicchiere? Cambiato un pannolino? Infilato una suppostina? Azionato quel diabolico marchingegno che è un aerosol? Spinto una carrozzina? Cucinato la pappetta, che guai se scotta, e imboccato la creatura? I nostri padri entravano in casa, si mettevano le pantofole e infilavano le gambe sotto il tavolo. Serviti e riveriti. Si diceva: ha già fatto la sua parte portando a casa lo stipendio. Adesso le nostre mogli quando siamo a casa ci riempiono di commissioni e incombenze: ti sei divertito tutto il giorno in ufficio, ora sotto a lavorare.
Il papà una volta era la prima autorità: oggi si cerca di farlo sparire degradandolo al ruolo di vicecolf.
Ho il sospetto che la rimozione sia stata preparata con cura da tempo. La mia generazione è cresciuta con la compagnia di un mondo fantastico popolato di zii, nonni, nipoti, fidanzati e amici: Paperino e Paperone, Topolino e Pippo, Minnie e Paperina, Qui Quo Qua e Tip e Tap, Paperoga, Orazio e Clarabella, Gastone, Nonna Papera. Nessuno si sposava mai, nessuno aveva né figli né (misteriosamente) genitori. Come se avessero voluto prepararci a un futuro senza famiglia.
Dietrologie malate? Può darsi. Sta di fatto che la figura del padre sta per essere eliminata perfino dall’anagrafe. Si potrà scegliere, infatti, tra il cognome del padre e quello della madre. Quando la legge è stata approvata al Senato, sui giornali sono partiti i divertissement: come si chiamerebbero i politici se scegliessero il cognome della mamma? Berlusconi sarebbe Silvio Bossi; Bossi: Umberto Mauri; Fini: Gianfranco Marani; D’Alema: Massimo Modesti; Rutelli: Francesco Gentili; Casini: Pier Ferdinando Vai; Napolitano: Giorgio Bobbio.
Come al solito si parla di progresso, di pari opportunità. Ma credo che le prime a capire la fregatura saranno proprio le donne. Fare un figlio è talmente una faccenda femminile che, se leviamo al nascituro il nome del padre, tutto si riduce a una storia tra lui e sua madre.
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