«Albanese assolto, ma il suo alibi era falso»
2 Agosto 2005 - 00:00Il Pg chiede alla Cassazione lannullamento della sentenza: un imputato condannato a 12 anni per riduzione in schiavitù, in Appello era stato scagionato: «Ero a Tirana...»
Per la pubblica accusa lalibi dellimputato è «miseramente fallito», confutato tra primo e secondo grado di giudizio. E, nonostante questo, luomo è stato assolto. E per questo è partita la richiesta di annullamento della sentenza, con un ricorso in Cassazione.
Accade al tribunale di Milano, dove Shkelqim Duka, cittadino albanese inizialmente condannato a dodici anni per il reato di riduzione in schiavitù, viene scagionato in appello per non aver commesso il fatto.
Laccusa: nel 1997 Shkelqim Duka avrebbe costretto tre connazionali a chiedere lelemosina tra Milano e Sesto San Giovanni.
La difesa: in quello stesso periodo Shkelqim Duka non si trovava in Italia, ma a Fier, in Albania, ricoverato in ospedale per sottoporsi a unoperazione chirurgica.
La tesi difensiva viene accettata dalla terza Corte dappello del Tribunale di Milano, e luomo viene assolto.
Partono i riscontri telefonici e le rogatorie, e parte anche il procuratore generale Laura Bertolé Viale, che va a Tirana per sentire i medici che avrebbero preso in cura luomo.
«In un primo momento - racconta il magistrato - sembravano non ricordare nulla, poi hanno ammesso di aver compilato i documenti relativi al ricovero segnando le date della degenza su indicazioni dello stesso Duka». Non è vero, dunque, che limputato non fosse in Italia allepoca dei fatti contestati. E, nonostante questo, la terza Corte dappello del Tribunale di Milano lha assolto. Una sentenza impugnata dal procuratore generale, che venerdì scorso presenta ricorso in Cassazione, per «manifesta illogicità della motivazione».
E proprio nel ricorso, si definiscono le argomentazioni dei giudici di secondo grado come «affetta da irreversibile illogicità», dal momento che «i testimoni - si legge - hanno dimostrato come lalibi fosse falso».
Poco convincenti, per il procuratore generale, sono anche le motivazioni della Corte dappello, che definiscono «poco credibile che tre persone adulte di circa quarantanni siano state costrette a piegarsi ai voleri di un solo soggetto che li avrebbe costretti a chiedere lelemosina a Milano lasciando a essi solo una minima parte del ricavato».
«Si tratta solo di alcuni degli elementi del ricorso», precisa Bertolé Viale. E comunque, «sono elementi di rilievo».
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