Cronaca locale

«Albanese assolto, ma il suo alibi era falso»

Il Pg chiede alla Cassazione l’annullamento della sentenza: un imputato condannato a 12 anni per riduzione in schiavitù, in Appello era stato scagionato: «Ero a Tirana...»

Per la pubblica accusa l’alibi dell’imputato è «miseramente fallito», confutato tra primo e secondo grado di giudizio. E, nonostante questo, l’uomo è stato assolto. E per questo è partita la richiesta di annullamento della sentenza, con un ricorso in Cassazione.
Accade al tribunale di Milano, dove Shkelqim Duka, cittadino albanese inizialmente condannato a dodici anni per il reato di riduzione in schiavitù, viene scagionato in appello per non aver commesso il fatto.
L’accusa: nel 1997 Shkelqim Duka avrebbe costretto tre connazionali a chiedere l’elemosina tra Milano e Sesto San Giovanni.
La difesa: in quello stesso periodo Shkelqim Duka non si trovava in Italia, ma a Fier, in Albania, ricoverato in ospedale per sottoporsi a un’operazione chirurgica.
La tesi difensiva viene accettata dalla terza Corte d’appello del Tribunale di Milano, e l’uomo viene assolto.
Partono i riscontri telefonici e le rogatorie, e parte anche il procuratore generale Laura Bertolé Viale, che va a Tirana per sentire i medici che avrebbero preso in cura l’uomo.
«In un primo momento - racconta il magistrato - sembravano non ricordare nulla, poi hanno ammesso di aver compilato i documenti relativi al ricovero segnando le date della degenza su indicazioni dello stesso Duka». Non è vero, dunque, che l’imputato non fosse in Italia all’epoca dei fatti contestati. E, nonostante questo, la terza Corte d’appello del Tribunale di Milano l’ha assolto. Una sentenza impugnata dal procuratore generale, che venerdì scorso presenta ricorso in Cassazione, per «manifesta illogicità della motivazione».
E proprio nel ricorso, si definiscono le argomentazioni dei giudici di secondo grado come «affetta da irreversibile illogicità», dal momento che «i testimoni - si legge - hanno dimostrato come l’alibi fosse falso».
Poco convincenti, per il procuratore generale, sono anche le motivazioni della Corte d’appello, che definiscono «poco credibile che tre persone adulte di circa quarant’anni siano state costrette a piegarsi ai voleri di un solo soggetto che li avrebbe costretti a chiedere l’elemosina a Milano lasciando a essi solo una minima parte del ricavato».
«Si tratta solo di alcuni degli elementi del ricorso», precisa Bertolé Viale. E comunque, «sono elementi di rilievo».

Ora deciderà la Cassazione.\

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