Cultura e Spettacoli

Aleksandr Radiscev Pietroburgo-Mosca con l’utopia in valigia

Torna il classico del Settecento russo che fustigava la nobiltà terriera

L’editore Voland ha ripubblicato Viaggio da Pietroburgo a Mosca di Aleksandr Radiscev (pagg. 314, euro 14), classico della fine del XVIII secolo, fuori stampa da anni in Italia. Cahier de doléances non ascrivibile alla letteratura di viaggio in senso stretto, il libro non manca di annotazioni sui costumi del popolo russo. Come quando l’autore, a bordo del rudimentale calesse chiamato «kibitka», incappa nella cittadina di Valdaj, famosa per «le sue ciambelline e le ragazze imbellettate». Che «tentano di risvegliare le voglie dei viaggiatori» preparando una banja, la sauna russa, dove laveranno il viandante e passeranno con lui la notte, facendogli perdere «soldi, salute e tempo prezioso per il viaggio». Una capitale del turismo sessuale ante litteram, Valdaj, una Spa di tentazioni paganeggianti e vetero-slave, di sacrifici alla dea Lada.
Radiscev, che in altre pagine confessa di avere contratto e trasmesso ai figli una innominabile malattia venerea, batte molto il chiodo della morale. Una morale spesso di tipo politico e che gli è valsa la censura e la condanna a morte, commutata nella deportazione in Siberia, da parte di Caterina II.
Gli anni del soggiorno in Germania avvicinarono lo studente alle idee egualitarie e democratiche che si stavano diffondendo in Europa, a pensatori come Diderot, Rousseau e Beccaria. Queste influenze, accentuate dalla deludente esperienza di Radiscev nell’amministrazione russa, portarono lo scrittore a spendersi per l’eliminazione della servitù della gleba e in generale per l’emancipazione delle masse afflitte. E se talvolta questo audace slancio verso i più deboli sfuma nel patetismo, come quando, nel Viaggio, decanta la bellezza dei denti delle contadine rispetto a quelli delle pietroburghesi, il cui fiato è corrotto e ammorbante, altre volte la predica si fa più seria. Per esempio allorché invita ad abolire le catene che legano i contadini alla terra perché altrimenti qualcuno, prima o poi, potrebbe sfruttare il loro malcontento per abbattere il potere con la violenza.
Certo l’eco della rivoluzione francese si fa sentire fin nelle steppe, e così il rumore delle teste coronate che rotolano. A differenza dei rivoluzionari d’Oltralpe e di quelli bolscevichi, tuttavia, Radiscev dimostra apertamente di volere il bene e la salvezza del sovrano. Ed è ben lungi da tentazioni anticlericali. Ma la sua critica radicale del ceto dominante, la nobiltà che regge la burocrazia e conduce le terre, è talmente spietata che censura e condanna del libro non stupiscono.
Resta un rammarico. Se il Viaggio, accanto a molte pagine datate e retoriche, benché non prive di lungimiranza, ne ha altre avvincenti e interessanti, nondimeno è appesantito da un’introduzione prolissa e avara di informazioni biografiche sull’autore, la censura del libro, la condanna e la deportazione. E, infine, sul suicidio, avvenuto nel 1802.

Circostanze che si vorrebbero conoscere meglio benché sepolte dal tempo e dalla scarsità di documenti e testimonianze.

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