AllAcquasanta esiste, dal 1997, il museo della carta, situato al di là del torrente Leira, nella vecchia cartiera Sbaraggia sorta nel 1756; edificio che è di proprietà dell'Opera Pia Nostra Signora dell'Acquasanta. Qui, sotto l'egida del sindaco di Mele, Clio Ferrando, l'industria cartaria, da anni scomparsa o quasi, trova i suoi epigoni in Edoardo Tiragallo, Angelo Caviglia e Lorenzo Canepa, ognuno ex «mani in pasta» nelle cartiere che erano dislocate per tutto il vasto territorio melese. Ritiratisi dalla produzione e passati nelle fila dei pensionati, i tre non si sono arresi e cedendo al richiamo nostalgico, eccoli pronti e arzilli, scendere in campo per compiere la metafora di se stessi. Su appuntamento si può visitare il museo e la sua cinematica; sono in molti a recarvisi, specie le scolaresche voltresi che assistono al processo di lavorazione della carta dalla A alla Z con trasporto e interesse.
Ogni scolaro esce con la ferma convinzione, vista la complessità di lavorazione per ottenerla, di rispettarla di più, sprecandone meno e di diversificare la spazzatura di casa in modo che la carta possa essere riciclata col processo di sempre. Nel territorio di Voltri questa lavorazione di bianco Papéro risale al XV secolo. Portata qui da Fabriano, la lavorazione si espanse a macchia d'olio lungo la Valle del Leira e quella del Cerusa dove i Dongo impiantarono la prima «zona industriale» d'Europa, un complesso composto da 17 cartiere, 2 cotonifici, 2 iutifici e un indotto enorme di fabbri ferrai, maniscalchi, falegnami, carrettieri, mulattieri, straccivendoli; località alla quale diedero giustamente il nome di Fabbriche, nome che tuttora persiste. Inizialmente furono i nobili i primi fruitori di quel boom economico: i Doria, gli Spinola, i Centurione, i Durazzo, i Dongo, i Rovereto, i Giustiniani, i quali, alla fine del XVIII secolo passarono, lentamente, gradatamente le cartiere ai loro Mastri paperai che a loro volta, diventati proprietari, fondarono dinastie cartarie come fecero, i Barbarossa, i Polleri, i Calcagno, i Gambino, i Caviglia, i Fabiano, i Ghigliotti, i Porrata, i Piccardo e infine i Magnani, un ramo dei quali trasferitosi in Toscana, ha fondato un grande complesso cartario in quel di Pescia. Ritornando all'odierna attività del Museo, dove sembra non sia sufficente eseguire la lavorazione percorrendo un tratturo antico e farla riapparire su uno scenario al chiuso, ma, dicono, occorre anche fare una azione promozionale esterna alla cartiera. L'idea della carta fatta all'aperto non ci deve fare per nulla sorridere quando viene da tali accreditati personaggi. «Certamente non partiamo da zero - spiega Tiragallo - sarebbe impossibile! Partiamo con il nostro pisto (poltiglia ad alta percentuale di acqua) già in fase avanzata di raffinazione, lo teniamo in sospensione poi lo mettiamo nelle formelle come facevano 8 secoli fa i nostri antichi. Dalle formelle grigliate cola l'acqua che permette alla pasta di amalgamarsi, consolidarsi nello spessore voluto, nella grana desiderata dal Mastro Cartario poi, una volta pronta, si distende sopra dei fili appositi che sostituiscono gli essiccatori dello spandiun o spanditore che è un locale della zona alta della cartiera, esistente e ben visibile nel museo di Acquasanta».
Con un loro metodo antico, i tre «paperai», ad ogni foglio, imprimono un segno di riconoscimento visibile solo controluce, ad esempio, lo stemma della Confraternita dei Cartai; lo stesso che, in metallo fuso, appare nei fregi alti dei crocifissi di Mele nelle processioni. Questa è un'altra brillante idea in quanto, valorizza il foglio che può essere anche apprezzato dai collezionisti, personaggi che non mancano anche in questo settore. Prima che i francesi di Napoleone, dichiarassero Mele comune a sé, e ciò accadde nel 1798, questo territorio faceva parte del Capitaneato di Voltri per cui, tutti i «paperai» di Mele, Gatega, Leira, Fiorino, Cerusa e Fabbriche formavano una grande corporazione, potente a tal punto che nel 1605 poté permettersi il lusso di innalzare nella chiesa di S.Erasmo in Voltri, un altare dedicato a S.Lucia che è patrona dell'industria in oggetto; i membri avevano diritto alla sepoltura a pavimento nel tempio stesso e la pala d'altare, costosissima, la vollero per la «dipingione dal Magnifico Andrea Ansaldo figlio di Agostino mercadante nel logo di Otri...che facesse un bel Martirio della Santa dello nostro papéro patrona» (Soprani).
Le leggi sullo spionaggio industriale erano rigide. Porrata Antonio con il figlio Luigi incriminati nel 1760 per prestazione indebita di mano d'opera, per non essere fustigati in pubblica piazza, fuggirono di notte riparando a Colle Val D'Elza dove in seguito, ormai al sicuro, impiantarono un'industria cartaria.
Che futuro può avere il Museo e che scopo? Rispondono che «avrà le stesse possibilità di sopravvivenza degli altri musei e sarà come le coltivazioni agricole le quali, se non si concimano, sono destinate a inaridirsi. Per lo scopo, rispondiamo che è lo stesso scopo che ha un museo di costumi del Cinquecento visitato da giovani in jeans, è chiaro il paragone?». I tre amici, tutti nati in cartiera, sono rimasti prigionieri del passato; eroi volontari, li anima una struggente sopravvivenza della memoria che impone loro di procedere in quella esatta direzione come per riscattare un debito verso i loro antenati. E con la tradizione? Con la tradizione un rapporto leale, tollerante, perché non tutto ciò che è stato si riesce a far rivivere: certi strumenti, certi vocaboli, certi modi di dire, le cadenze dialettali tipiche della gente di Mele con i loro soprannomi, si sono persi nel crogiuolo del tempo e oggi vivono soltanto come allusione. Come alludere ad esempio, a quella ventina di allegre osterie dai nomi impossibili come Gigiùn, Loni, Maiottu, Maran, tutte frequentatissime dai paperai? Cosa significano oggi i vocaboli: luscéa, ciùsa, béu, roassa, moa, cilindré, lusciadùn, olandeise?.
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