ALL’OMBRA DEL CREMLINO

Altri tempi, quelli dell’Unione Sovietica, altri servizi segreti quelli della Guerra fredda. Decisamente più affascinanti, smaliziati, grandiosi nelle gesta e nei disegni di quelli di oggi. È il primo pensiero leggendo l’ultimo romanzo di John le Carré, Il nostro traditore tipo (pagg. 334, 20 euro), appena pubblicato da Mondadori. La lettura è gradevole, alcuni intrecci sono brillanti, ma anche un maestro come Le Carré sembra patire l’aridità dei nostri tempi. Il libro piace, ma non entusiasma. Scorre, ma non intriga al punto di togliere il sonno. E la descrizione di una nuova élite dominante, quella della grande criminalità moscovita che traffica e ricicla denaro in tutto il mondo, non brilla certo per originalità. Se «i segreti inconfessabili della nuova Russia», come recita il sommario, sono questi, vien da dire: ridateci quella vecchia. Per quanto comunista, i suoi vertici, perlomeno in strutture come il Kgb, dimostravano un livello di intelligenza e di sofisticazione decisamente superiore rispetto ai loro successi e all’altezza di quella dei loro colleghi occidentali di allora, britannici in particolare.
Leggendo le Carré, invece, i grandi criminali russi appaiono avidi e spietati, volgari e gretti; mentre i servizi segreti di Sua Maestà sembrano la deludente controfigura di quelli del passato, forse addirittura più decadenti di quanto non siano in realtà.
La storia si articola attorno a una coppia di giovani fidanzati inglesi, Perry, insegnante idealista a Oxford, e Gail, affascinante avvocato in carriera, che durante una vacanza ad Antigua, nei Caraibi, incontrano un rozzo ed eccentrico miliardario russo. Si accorgeranno ben presto che non si tratta di un magnate, ma di un alto esponente della malavita russa, il quale spera, tramite loro, di ottenere la protezione degli 007 londinesi. I due fidanzatini scopriranno come la nuova mafia russa tenti di costruirsi una nuova rispettabilità, sviluppando affari e legami con grandi multinazionali e politici in apparenza inappuntabili.
In questo romanzo John le Carré si propone di intrattenere - e ovviamente ci riesce - ma anche di svelare la corruzione e le manipolazioni che sovrastano i singoli e anche gli Stati, ma colpisce solo in parte l’obiettivo. La denuncia c’è, la descrizione di come questo avvenga nella realtà, avvalendosi dell’artifizio letterario, no. O meglio: non in maniera soddisfacente. C’è la tensione, per cui il lettore non si annoia, ma, a parte alcune cadute di stile, come il goffo riciclo di alcuni fatti realmente avvenuti o il pretestuoso coinvolgimento di Roger Federer, l’analisi resta accennata. Il nostro traditore tipo non va in profondità, non svela retroscena inediti, non illumina sulle tecniche e i compromessi usati dai grandi capi della malavita russa, che certo sciocchi non sono, per accumulare le proprie ricchezze, gestirle e irretire governi e opinioni pubbliche.
Peccato, tanto più che proprio la Russia ha primeggiato nell’arte della manipolazione e della dissimulazione, dimostrandosi, sovente, di gran lunga più efficace della Cia.
Basti pensare a Willy Muenzenberg, l’agente di influenza che dal 1920 al 1940 riuscì a orientare l’opinione pubblica dei Paesi avversi all'Unione Sovietica. Fu lui a gestire all’interno del Comintern il caso Sacco e Vanzetti, a far attribuire la colpa per l’incendio del Reichstag ai nazisti, a creare movimenti pacifisti in apparenza indipendenti e disinteressati, in realtà pilotati da Mosca.
Nel romanzo Il montaggio, Vladimir Volkoff, brillante scrittore francese di origine russa, descrisse le tecniche usate dal Kgb per infiltrare il mondo della cultura, del giornalismo, della scuola, senza che scrittori, giornalisti e docenti si accorgessero di essere manipolati. Un capolavoro che aiuta a capire per quale alchimia in un Paese come la Francia - ma anche l’Italia - le élite intellettuali abbiano rinnegato d'un tratto, nel Dopoguerra, le proprio tradizioni culturali a beneficio di quelle comuniste o comunque di sinistra, dando vita a fenomeno di conformismo sociale che non fu spontaneo, ma indotto e attentamente pianificato.
Il mondo di oggi è molto diverso da quello sovietico e le dinamiche di potere non sono più centralizzate, né, in fondo, nazionalistiche, dunque sarebbe sbagliato attendersi una continuità tra il passato e presente. Tuttavia quelle dinamiche, come allora, sono inesplorate e incomprese nella loro essenza. Ci aspettavamo che una penna del calibro di John le Carré approfittasse di questa opportunità per aprire, perlomeno, qualche squarcio nel cielo grigio dei nuovi poteri criminali, che sono nati sulla cenere dell’Urss e che si sono avvalsi della decisiva complicità di una parte del vecchio establishment sovietico, anche spionistico, per creare i propri imperi del malaffare, ormai diffusi in tutto il mondo, ma radicati a Mosca.
Grande tema, pericolosissimo, come dimostrano i tanti giornalisti uccisi in Russia. Ma la narrativa serve anche, in certe circostanze, a svelare verità scomode, limitando i rischi, tanto più se si è stranieri e apprezzati autori di best-seller.


Le Carré, invece, ha preferito andare sul sicuro. Il nostro traditore tipo piacerà ai suoi innumerevoli fan e non è difficile prevederne una trasposizione cinematografica, ma manca di quell’audacia interpretativa alla portata di un autore tanto di successo.

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