di Valentina Terruzzi
Ormai ci ha fatto l’abitudine. Nello studio medico di Enzo Giudice in via Niccolini, nel cuore della Chinatown milanese, è un via vai di ragazze cinesi che ripetono la stessa domanda: «Scusi, quanto costa abortire?». Donne poco più che ventenni, minorenni accompagnate dalla madre, regolari, clandestine, prostitute disposte a pagare qualsiasi cifra. «Abortire in realtà non costa nulla. Bisogna recarsi in ospedale con il certificato del medico, mettersi in coda e attendere il ricovero», spiega Giudice, medico di famiglia convenzionato con l’Asl. Ma non è questa la risposta che molte di loro si aspettano. «Vorrebbero abortire qui, subito, e tornare a lavorare come se nulla fosse - continua il medico -. Io naturalmente non posso accontentarle. Per prima cosa cerco di capire qual è il loro vero nome, poi procedo il test di gravidanza e, se è positivo, l'ecografia. Poi, se sono veramente convinte, stilo il certificato con i risultati degli esami e le indirizzo all’ospedale. Di principio non sono favorevole all’aborto, ma in questi casi è l’unico modo per sottrarre le donne alle pratiche clandestine».
Pratiche che in zona Paolo Sarpi, dove vivono 20mila cinesi, tra regolari, 15mila, e clandestini, 5mila,sono all’ordine del giorno. «A volte arrivano ragazze con emorragie e dolori all’addome. Dicono di essere cadute dalle scale o di avere un ciclo mestruale abbondante. Poi dall’ecografia scopro che hanno avuto un aborto clandestino e chiamo subito l’ambulanza». Non ci sono stime certe, ma secondo mediatori culturali, medici e investigatori in città si praticano dai cinque ai dieci aborti clandestini al giorno. «È un problema culturale. In Cina il ginecologo è una macchina per aborti - spiega Wwen, la sua assistente di origine cinese -. Chi abita in campagna può avere fino a due figli, ma in città è consentito un solo figlio maschio per problemi di sovraffollamento. Dopo il primo, ti mettono la spirale o ti tagliano le tube dell’utero per non farti rimanere incinta una seconda volta. Se questo “accidentalmente” dovesse accadere, la famiglia è costretta a pagare una multa proporzionale al reddito, altrimenti lo Stato ti obbliga ad abortire, anche all’ottavo mese. I medici ti iniettano un acido nell’addome e il feto muore sul colpo».
E adesso quei «medici» si stanno trasferendo qui da noi, nella Chinatown milanese, il supermercato degli aborti clandestini. Vengono ragazze incinte da tutta Italia, Piemonte, Lazio, Sicilia. I cinesi ne hanno fatto un business. Si va dai finti erboristi che vendono pillole abortive ai ginecologi cinesi, spesso impostori, che asportano il feto in ambulatorio con strumenti non sterilizzati e, per limitare le infezioni, imbottiscono le pazienti con bombe antibiotiche in endovena. Trovarli è facile. Basta girare nei pressi delle erboristerie cinesi e tenere d’occhio chi entra ed esce dai portoni. Spesso fuori c’è persino la fila. «Chiedono dai 400 agli 800 euro fino al terzo mese di gravidanza. Dopo il terzo anche mille euro. Guadagneranno intorno ai 20mila euro al mese, quando al loro Paese ne prendono al massimo cinquecento - continua il medico -. Per loro è facile. Si fanno pubblicità sui giornali cinesi. “Aborto con farmaco” recitano gli annunci. E sotto è indicato l’indirizzo del ginecologo».
Perché allora non denunciarli? «Non servirebbe. Tutti sanno dove sono, anche la polizia. E infatti molti hanno dovuto chiudere, anche se solo temporaneamente. Appena uno di loro viene scoperto, scatta la denuncia per abuso della professione.
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