Alle battute finali il processo contro Romano. Il legale smonta le accuse

Ora chiedono otto anni ma volevano archiviare

Alle battute finali il processo contro Romano. Il legale smonta le accuse

Il braccio di ferro, lungo quasi dieci anni, è ormai alla fine: da un lato i pm di Palermo, che ora vogliono chiuderlo in cella per otto anni (comprensivi di “sconto” previsto dal rito abbreviato) anche se qualche mese fa avevano chiesto che il suo caso fosse archiviato; dall’altro i suoi legali, che smontano le accuse dei pentiti e ricordano che se in dieci non si è trovato uno straccio di prova significa che nulla c’è da provare. E in mezzo lui, Saverio Romano, ex ministro dell’Agricoltura, leader del Pid (Popolari di Italia domani, gli scissionisti siciliani dell’Udc che hanno abbandonato Casini per schierarsi col Pdl) che da nove anni combatte contro l’accusa principe che colpisce chi fa politica in Sicilia, il concorso esterno in associazione mafiosa, e che ha voluto il rito abbreviato perché finalmente, sulla sua odissea giudiziaria, si metta un punto fermo. «Sono stato io, con i miei difensori – ha spiegato Romano – a chiederlo. Il gip del Tribunale non si era ancora pronunciato quindi ho chiesto io di essere processato prima di un eventuale rinvio a giudizio».
Un modo, quello scelto dall’ex ministro, per mettere almeno un punto fermo a una vicenda giudiziaria che ha dell’incredibile quanto ai tempi. Nove anni, sulla graticola. Nove anni in cui si sono rimescolate sempre le stesse storie: rapporti con personaggi poi risultati in odor di mafia per avere voti. «Saverio Romano – ha ricordato ieri in aula l’avvocato Franco Inzerillo, che ha cominciato la sua arringa – è indagato da dieci anni. La sua vita è stata rivoltata come un calzino e non è mai stato trovato niente. Questo significherà qualcosa oppure no?».
Già. In un Paese con una giustizia normale, tanto più dopo un’archiviazione (nel 2005) e due richieste di archiviazione poi sfociate nell’attuale processo solo perché il Gip ha chiesto l’imputazione coatta, qualcosa dovrebbe significare. Tanto più che il pm che oggi chiede la condanna a otto anni dell’ex ministro perché Romano avrebbe stipulato un patto politico coi boss è lo stesso che per due volte ha chiesto di archiviare il caso. «Mi amareggia e mi addolora – chiosa Romano – sapere che i pm che hanno lavorato a fondo si questo caso adesso, folgorati sulla via di Damasco, chiedano la mia condanna a carte immutate». Un dato che il legale del leader del Pid non ha mancato di sottolineare, nel corso dell’arringa: «Il pm ha preso dei rimasugli di altri processi e ne ha fatto una frittata».
Sì, perché il processo a Saverio Romano il pm vuole legarlo a doppio filo a un altro processo: quello contro l’ex governatore di Sicilia Salvatore Cuffaro, da un anno e mezzo in carcere a Rebibbia per scontare una condanna definitiva a sette anni. L’equazione della procura è la seguente: Romano è amico di Cuffaro, ergo va condannato anche lui. Ma nemmeno così i conti tornano. Cuffaro infatti è stato condannato per favoreggiamento alla mafia, non per concorso. E sono appena state rese note le motivazioni della sentenza con cui la corte d’appello di Palermo ha respinto, proprio per Cuffaro, il processo bis per concorso esterno per associazione mafiosa.

I giudici scrivono che no, gli estremi per l’altro reato non ci sono e che la richiesta dei pm esprime «la situazione di consumazione del potere della pubblica accusa, a fronte di un quadro rimasto immutato». Come immutato è il quadro accusatorio dell’ex ministro.
Le arringhe dei difensori di Romano continuano martedì. La sentenza del Gip è prevista per il 17 luglio.

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