«Parole, parole, parole» cantava Mina, «soltanto parole tra noi», e però dici niente, perché a Edy, la mia amante pelosa che vado a trovare ogni settimana, manca solo la parola. Questo perché lei è uno scimpanzé e io un uomo, siamo entrambi primati e entrambi discendiamo dalle scimmie ma cinque milioni di anni fa abbiamo preso strade diverse, e adesso un vetro separa i nostri corpi e ci impedisce il contatto fisico. Tanto neppure la liscia Nicole Minetti, l’altro amore mio, mi risponde mai, né su Facebook né su Twitter, e lì in teoria apparteniamo alla stessa specie, quindi tanto vale restare al Bioparco, almeno Edy, attraverso il vetro, mi regala baci a non finire.
È comunque un pretesto per pensare quanto, negli ultimi decenni, si faccia sempre più interessante lo studio della natura del linguaggio che ci distingue dagli altri animali, soprattutto se analizzato da neurologi cognitivi attraverso seri approcci sperimentali e evoluzionisti. Vilayanur Ramachandran, inserito da Newsweek tra i cento personaggi fondamentali al progresso del XXI secolo, è uno di questi, e il suo ultimo saggio, L’uomo che credeva di essere morto, edito da Mondadori (pagg.372, euro 20) prova a sbrogliare proprio il nodo cruciale dell’evoluzione del linguaggio. A cominciare dalla fondamentale funzione dei neuroni specchio, lo «scimmiottare», di cui proprio le scimmie, paradossalmente, risultano carenti rispetto all’uomo.
È proprio la spiccata capacità di imitazione la facoltà principale che ha permesso ai primi ominidi il passo fondamentale per trasmettere la conoscenza con l’esempio, pur passando per un lungo e complesso meccanismo darwiniano.
Certo, tutto passa attraverso la dura lotta delle vita nella materia, non dimentichiamo che basta della ketamina o una lesione alla regione frontoparietale destra per produrre l’illusione di un’esperienza extracorporea, e perfino l’etica e il «libero arbitrio», il bene e il male, senza alcune specifiche strutture dei lobi frontali e del cingolo anteriore andrebbero a farsi friggere. Ciò non toglie che noi umani abbiamo sviluppato una straordinaria forma di coscienza e, caso unico sul pianeta terra, riflettiamo sul nostro essere nell’universo: niente male per essere polvere di stelle, corpi tenuti insieme da atomi vecchi quattordici miliardi di anni. Ma appunto la capacità di pensare, comunicare, scrivere, leggere e esprimersi non è astratta, si può addirittura toccare con mano, basta aprire un cervello. Malato o sano poco importa, anzi meglio malato, perché è proprio studiando le disfunzioni che la scienza riesce a smontare i pezzi della macchina pensante.
Infatti la parte superiore del lobo parietale inferiore (LPI), per esattezza il giro sopramarginale, è appannaggio esclusivo dell’uomo, e basta una lesione in questa zona corticale per perdere la facoltà di parlare. Non solo: le regioni cerebrali dedicate al significato e alla sintassi sono separate. L’area di Wernicke è preposta alla comprensione del linguaggio, ossia alla semantica, mentre l’area di Broca è fondamentale nel linguaggio parlato e la sintassi. Un afasico di Wernicke, con l’area di Broca intatta, produce frasi complesse, ma prive di significato. Se applicassimo la diagnostica neurologica alla politica chissà quante ne verrebbero fuori.
In ogni caso se mi tagliassero le mani non potrei scrivere l’articolo che state leggendo, ma potrei comunque dettarlo, perché come scrive Ramachandran: «il vostro centro della scrittura è nel giro angolare, non nelle mani». Certo, non potrei dettarlo alla mia amata Edy, ma alla fine mi viene anche il dubbio che se fosse andata lei al Festival di Sanremo, o se fosse stata al posto della mia ultima amante umana, ne avrebbe detto di migliori perfino stando zitta.
Insomma, stringi stringi anche un umano antiumanista come me ha i suoi romanticismi, e mi piace pensare che magari gli scimpanzé non parlano perché hanno capito che c’è niente da dire, e se mi è difficile immaginare un gorilla che scrive l’Amleto, non ne ho mai visto uno pregare un uomo invisibile guardando il cielo. Magari non è agli scimpanzé che manca la parola, ma a noi che manca il silenzio.
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