Ciao ciao Malpensa. I sindacati di Alitalia sono famosi per non essere mai d’accordo su nulla. Eppure ieri il miracolo è accaduto. Le «nove sigle sindacali nove» che compongono il surreale quadro delle relazioni industriali della ex compagnia di bandiera, e che fino a ieri si facevano un dispetto dietro l’altro (se scioperi tu non sciopero io), hanno magicamente trovato l’intesa. Tutte insieme hanno deciso di salutare lo scalo lombardo e lasciarlo al suo destino. Non si ricorda a memoria d’uomo una decisione di questa portata presa all’unanimità. E il desiderio di «mollare» l’aeroporto è stato tale che, pur di non lasciare dubbi, i sindacati hanno finito per dare un sostanziale via libera al piano industriale di Maurizio Prato, tutto ispirato ai classici sangue, sudore e lacrime.
Un bell’esempio, si dirà, di sindacato alla tedesca, in cui i lavoratori accettano i sacrifici necessari per salvare il bene comune. La storia e i precedenti autorizzano piuttosto a parlare di sindacato alla romana. Perché lo slancio con cui i sindacalisti delle varie segreterie nazionali hanno chiuso il capitolo dei due hub intercontinentali è la prova definitiva di come all’interno dell’azienda sia stata vissuta e gestita la scommessa di conquistare il ricco mercato del nord Italia. Nel 1998, al momento di giocare la carta Malpensa, fu annunciato un piano di trasferimenti (dai piloti ai servizi) in grado di far diventare davvero l’aeroporto lombardo uno dei due centri nevralgici della compagnia. In dieci anni o poco meno non è cambiato nulla. Alitalia di Roma era e di Roma è rimasta. Se le cose, dal punto di vista dei conti, fossero andate bene, la cosa sarebbe del tutto irrilevante. Perché non deve essere a Roma la sede della principale compagnia aerea italiana? Ma in questo caso la compagnia ha potuto scegliere di puntare sulla capitale non perché era in grado, attraverso i risultati, di legittimare la sua scelta. Ma perché da sempre le sue decisioni sono sganciate dalla verifica dei risultati e del mercato. Il peccato era spiegabile in tempi andati. È diventato imperdonabile da quando la liberalizzazione dei cieli ha cambiato le carte in tavola rendendo preistorico il modello delle compagnie di Stato sovvenzionate a fondo perso. Se ne sono accorti tutti, meno chi dall’Alitalia «foresta pietrificata» continuava a trarre lucrosi vantaggi.
Così oggi, i nove sindacati della compagnia possono continuare a giocare la loro stanca parte: «Parlare di esuberi appare del tutto inopportuno». I lavoratori non paghino «i ritardi e la miopia della politica». Naturalmente «senza rinunciare a una logica di gruppo e a uno sviluppo dell’azienda».
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