Allevi, il direttore in jeans a Pechino è medaglia d’oro

Con il suo concerto "Ad Oriente" il pianista ha conquistato l’Auditorium dirigendo la Filarmonica: "Avevo paura, la mia musica non è facile"

Allevi, il  direttore in jeans a Pechino è medaglia d’oro

Pechino - Finisce con i professori dell’orchestra che percuotono i leggii con i loro archetti in segno di approvazione, come se dovendo dare i voti al direttore venuto da Milano - la Scala, certo - siano indecisi tra il 9 e il 10. Con la percussionista che da laggiù saluta agitando i suoi mazzuoli. Con i cinque contrabbassisti che applaudono e ridono, contenti che la gente si sia divertita.

Lui, con la sua eterna faccia da studente liceale un po' secchione, la sua zazzera esagerata e il suo contagioso entusiasmo per la musica salta come un folletto sulla scena. Sparisce di corsa, riappare correndo, vorrebbe baciare gli orchestrali uno a uno, ma si contenta di indicarli all'applauso del pubblico chiamandoli per sezioni: i violini, le viole, i bassi, i fagotti, i corni...

Giovanni Allevi viene «Ad oriente» (così si intitola lo spettacolo andato in scena ieri sera nell'auditorium della Città Proibita) portando la sua musica appassionata, coinvolgente, neoromantica. E conquista i cuori del pubblico eterogeneo che è venuto a sentirlo: la buona borghesia cinese, elegante, colta e raffinata (se si può parlare di buona borghesia in una Repubblica popolare) e una folta rappresentanza della cospicua comunità occidentale.

Nei due giorni di prove che hanno preceduto il concerto, i professori dell'Orchestra Filarmonica cinese hanno imparato a conoscere il bizzarro pianista, compositore e direttore con cui avranno a che fare. Ma sulle prime, pare che molti siano rimasti a sopracciglio inarcato quando gli è stato detto che la sera del concerto Allevi si sarebbe presentato con la stessa mise con cui lo vedevano alle prove. Scarpe da tennis, nere. Jeans e maglietta, neri. Felpa col cappuccio, nera.
Allevi comincia da solo. L'orologio degli dei, Back to life, («mi sono arrampicato su queste note per comprendere che la mia forza è la mia fragilità») Jazzmatic. È la musica ricca, calda, avvolgente, talvolta neoromantica, talaltra di derivazione jazzistica che i suoi fan (ce ne sono anche a Pechino) conoscono bene. Poi arriva l'Orchestra, e l'atmosfera vira verso la festa. Lui si è già tolto la felpa. Resta in maglietta, mentre il primo violino indossa un inappuntabile frac ma pesta il piede sul palcoscenico e si fa trascinare dalla musica sottolineando con l'arco e le espressioni del volto la sua contentezza per le belle cose che sta suonando.

Finisce come al solito. Tra gli applausi.
Ma fino a stamani, il maestro era teso. «Meno male che ho dormito», dice alle 10 del mattino arrivando con la moglie Nada al bar dell'albergo. «Nei due giorni precedenti non ho chiuso occhio». «Be’, ma c'è voluta una pillola», sorride la moglie, carezzandolo con gli occhi. Il fuso orario, la tensione per il concerto. Soprattutto la fatica di mercoledì e giovedì: due intere giornate passate a provare con l'orchestra, senza neppure avere il tempo di ritagliarsi un'ora da turista. «La mia musica non è facile», dice allungandosi sulla sedia con la sua aria educata da timido, come se ogni volta chiedesse scusa e non vedesse l'ora di tornare nel suo mondo, alle sue fantasticherie. «I musicisti hanno dovuto imparare i passaggi delle partiture... Insomma: un lavoraccio». Facciamo colazione insieme. Una treccia, un cappuccino. Offre il Giornale. Poi lo convinco a staccare mentalmente. Si parte per il centro commerciale di Ya Show. Un po’ di shopping, per svagarsi. Giriamo tra gli stand di abbigliamento, tra le grida delle ragazze che puntano a piazzare camicie, magliette, collane, scarpe, occhiali. La moglie lo guarda, sempre con lo stesso sorriso contagioso. «Non comprerà niente - mi confida -. Lo conosco. Ha già quello che gli serve: un paio di jeans, una maglietta, una felpa». Lui, sempre un po' stralunato.

Si torna in albergo. Le ore passano rapide. Il momento del concerto si avvicina.

E fra un po' sarà pure finito. Partono di nuovo, prima che cali il sipario, le note di A perfect day. A qualcuno pare di sentire Gershwin, Cole Porter, ma anche Dvorák e Dostoevskij. Ma dentro c’era soprattutto molto, molto Giovanni Allevi.

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