da CannesUn chirurgo plastico psicopatico, un cambiamento di sesso, una madre senza scrupoli, un fratello violento e senza morale, il ricordo di una donna amata, traditrice, rimasta sfigurata e poi morta suicida, di una figlia mentalmente disturbata, suicida anch’essa. Come contorno, la transegenetica e la bioetica, i confini della scienza e i limiti della coscienza, interni borghesi di lusso e desideri di evasione piccolo-borghesi, la famiglia come legame vitale e insieme mortale, fonte di alleanze e insieme di conflitti.
Con La piel que abito Pedro Almodòvar torna in concorso a Cannes a sei anni di distanza da La mala educaciòn che lo vide vincitore. È da più di un quarto di secolo che fa cinema, le commedie pop degli inizi e il melodramma reinventato dell’età di mezzo. Da Volver a Los abrazos rotos si è lentamente spostato sul noir o, meglio ancora, sul thriller, naturalmente alla sua maniera: «È un genere che ingloba gli altri, che permette il maggior numero di prestiti e di sfumature. D’altra parte non ho mai creduto a una suddivisione classica per temi. Sono sempre stato un ammiratore di Fritz Lang, di quel tipo d’atmosfera e di caratteri. E infatti, all’inizio, La piel que habito sarebbe dovuto essere muto e in bianco e nero...»
Il film segna il ritorno di Antonio Banderas a fianco del regista. «Una delle cose che Pedro mi ha insegnato è che recitare vuol dire rischiare, andare in campi sconosciuti, non sentirsi mai appagati. Il mio personaggio, il medico Robert Ledgard, è un “selvaggio“ quanto a codici morali, come suo fratello Zeca, “il Tigre“, è un piccolo criminale comune. Lui ha studiato, l’altro ha scelto la strada, ma sono simili. Questa assenza completa di etica, comporta un orrore mentale e di comportamento. Io ho scelto di rappresentarlo attraverso un modo di parlare, di guardare, gelido, senza emozioni. Robert non sorride mai, non è mai alterato: è come una macchina».
Les yeux sans visage, un vecchio film degli anni ’50 di Georges Franjou, con Pierre Brasseur e Alida Valli, è stato il punto di riferimento da cui Almodòvar si è mosso: «È un classico, lo conosco a memoria.
Era la storia di un chirurgo che uccideva per procurarsi il materiale umano necessario per ridare un corpo alla donna amata, rimasta sfregiata in un incidente. Poi in aereo ho letto un romanzo di Thierry Janquet, dove c’era una storia simile, ma l’accento veniva messo sulla grandezza della vendetta, su dove si è disposti ad arrivare perché essa possa considerarsi completa».
Come spesso accade nei suoi film, anche qui più storie si intrecciano e non sempre in modo limpido. Zeca, il tigre, non è solo l’uomo che causò l’incidente d’auto che sfigurò Vera, la moglie di Robert, è anche quello che gliela rubò... Eppure, è da lui che torna per farsi fare una plastica che lo renda irriconoscibile alla polizia, sulle sue tracce dopo una rapina. Vicente (Jan Cornet) è il presunto stupratore che Robert punirà trasformandolo in donna e dandole i lineamenti della moglie suicida.
Nel suo nuovo corpo, si farà riconoscere dalla commessa del negozio di moda di sua madre, perché indossa il vestito che sei anni prima, la sera in cui fu rapito e scomparve, voleva regalargli. E però nel film passa i suoi giorni a fare a pezzi abiti per trasformarli in opere d’arte alla Louise Bourgeois...
«Rispetto ai film del passato, o allo stesso mito di Frankenstein, il mio film ha un elemento in più - dice ancora Almodòvar -. Lì ci si muove nel genere fantastico e/o fantascientifico, qui siamo nella realtà.
Elena Anaya è Vera, un corpo perfetto che non ha bisogno di ritocchi.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.