Altri dieci Bondi e non avremo più crolli

di Matteo G. Brega

L’occasione per la mozione di sfiducia al ministro Bondi è data dal crollo della Domus Armaturarum di Pompei ma, più in generale, la critica che viene mossa al ministro è quella di non aver impedito i tagli alla cultura.
La questione dei tagli alla cultura è molto complessa e forse il problema non sta tanto nei tagli o nella paventata norma che obbliga le amministrazioni locali a ridestinare per «spese di rappresentanza» - la voce che di solito comprendeva le manifestazioni culturali - il 20% di quanto destinato nel 2009, quanto nel mancato rinnovo del quadro normativo che avrebbe potuto, in poco tempo, trasformare l’investimento in cultura dei privati sostanzialmente da «lusso», come ora in Italia, a «pubblicità» e quindi investimento. Ma un riordino di questo tipo farebbe nascere in alcune anime belle la critica pavloviana della «mercificazione della cultura» che dovrebbe essere invece pagata dallo Stato e destinata a chi lo Stato ritiene meritevole.
È dimostrato, però, che questo tipo di criterio non premia le migliori iniziative o le istituzioni più prestigiose; nel migliore dei casi crea un sistema paraassistenzialista dove quasi tutti coloro che fanno richiesta ricevono qualcosa ma tutti troppo poco per fare cose veramente interessanti. Un sistema dove di solito il criterio di scelta è il gradimento del politico di turno. Tutto ciò a scapito dei centri d’eccellenza che andrebbero sostenuti, quelli sì, per «ragioni di Stato» ma che si trovano ad essere una realtà in mezzo alle altre. In questo senso il riordino che il ministero sta compiendo nella direzione dei «macro-poli» può essere una buona soluzione.
Dare a Bondi la colpa dell’incuria di Pompei fa sorridere ed è ingiusto. Si sente addirittura dire che la gestione commissariale sia stata un errore, quando invece, quando fu istituita mesi fa, venne salutata come l’unica possibilità per uscire da una situazione resasi insostenibile negli anni. Il sito di Pompei è l’area archeologica tra le più importanti al mondo. Dal punto di vista delle potenzialità d’interesse sul pubblico paragonabile solo alle Piramidi. Valorizzato e comunicato nel migliore dei modi potrebbe rappresentare un’attrazione di immenso impatto per l’Italia nel mondo.
Dalla sua scoperta in poi il sito di Pompei è sempre stato considerato come gli italiani considerano tutto il proprio patrimonio artistico, o forse peggio: un lascito dei nonni. L’atteggiamento nei confronti dei beni culturali è quello dei nipoti delle famiglie aristocratiche che trovandosi ad ereditare antiche ville in rovina le assimilano alle spese che si devono sostenere per mantenerle piuttosto che al valore che esse rappresentano. Non essendo, per noi italiani, i beni culturali oggetti di conquista ma «cosa trovata», difficilmente considereremo gli Uffizi come i francesi considerano il Louvre o gli inglesi il British Museum. Il paradigma è la scena della Dolce vita dove, per far qualcosa di diverso, i nobili eredi vanno a visitare di notte la villa degli avi ormai abbandonata e decadente con una curiosità mista a sorpresa per una cosa così strana e inutile. E non c’è stato ministro che nel passato abbia dimostrato nei fatti un diverso atteggiamento. Pompei, da quando fu scoperta in poi, ha rappresentato più un «giacimento» che un «bene». Dai giacimenti si estraggono cose da rivendere mentre i beni si tutelano. È questa l’ambiguità che ha attraversato i secoli, che è partita da un’ottica essenzialmente predatoria ed è poi giunta alla tutela, a volte portata a conseguenze estreme dei nostri giorni.
L’Italia oscilla tra l’intoccabilità, il vincolo e i prestiti negati da una parte e l’incuria, la sciatteria e il mercimonio dall’altra.

Nel caso di Pompei l’infausto recente crollo non ha fatto che evidenziare una situazione endemica nei confronti di un’area che difficilmente potrà conoscere tempi luminosi soltanto con la tutela e senza la valorizzazione. Ancora oggi, riflettendo razionalmente e non coi pretesti della politica, le uniche vie d’uscita paiono il riordino normativo e la gestione commissariale. E fra dieci ministri, forse non crollerà più niente.

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