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Carlos Monzón, il fascino della violenza

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di Le leggende della boxe. Storie di campioni dentro e fuori il ring (Diarkos)

Carlos Monzón, il fascino della violenza

La letteratura e la cinematografia si nutrono di cattivi. È il fascino della violenza, che oggi va tanto di moda. Ebbene, il ring di duri ne ha proposti tanti, ma nessuno come Carlos Monzón, l’indio dannato che passò come un rullo compressore anche sul nostro Benvenuti e finì per perdersi nella spirale della sua vita scellerata. Il carcere per l’omicidio della moglie e un tragico incidente stradale chiusero il destino del più brutale pugile degli anni Settanta, ma anche di un campione dei pesi medi, praticamente imbattuto, che merita un posto al sole fra i grandi del ring.

Raramente vita e ring si sovrappongono inesorabilmente quando cerchiamo di dare una dimensione al personaggio. Non per niente Monzón è anche il titolo di una serie argentina di tredici episodi arrivata in Italia sulla piattaforma Netflix ma passata un po’ inosservata, nonostante i numerosi premi ricevuti in patria. Un peccato, perché si tratta di una delle più belle fiction dedicate alla boxe, con ottima tecnica televisiva, grandi investimenti e anche una certa verosimiglianza con lo sport reale. Il problema (non da poco) è che la serie, creata da Pablo E. Rossi e con attori diversi a interpretare il campione dei medi nelle varie fasi della sua vita, è tratta dal libro Monzón, secreto de sumario (“segreto istruttorio”) di Marilé Staiolo, che sposa ogni tesi colpevolista.

Carlos assassino lo è sicuramente, ma le testimonianze non sono così chiare come appaiono nella serie. E, per denunciare la violenza di genere, che ha reso fruibile il caso Monzón al grande pubblico, la sceneggiatura si è concessa molte licenze “letterarie”. Sicuramente più documentato e attinente ai fatti il libro Monzón, il professionista della violenza, scritto dai due giornalisti di boxe Dario Torromeo e Riccardo Romani, che sono rimasti fedeli alla cronaca senza tesi preconcette e senza rinunciare alla celebrazione pugilistica. Il fatto che la storia di Monzón non sia diventata materia di un vero film di successo (come sognava il suo amico Alain Delon) ma solo lo spunto per un biopic sulla violenza di genere rappresenta un’occasione persa, a cui forse il tempo rimedierà. Resta, però, il dato di fatto: Monzón è stato un grande pugile ma anche un violento assassino, autore di un femminicidio che ha tentato maldestramente di coprire e che ha fatto molto male anche a se stesso, fino all’incidente stradale che ha posto fine alla sua autodistruzione.

Leggende della boxe

La testimonianza

All’inizio degli anni Novanta, la mia carriera professionale alla «Gazzetta dello Sport» si incrociò casualmente con quella di Monzón. Fummo infatti contattati in redazione da una pittrice croata residente in Italia, Elizabeta, che in quegli anni frequentava regolarmente l’ex pugile nel carcere di Santa Fe e aveva intrecciato con lui una relazione che, in base alle promesse di Monzón, doveva portarli a un futuro insieme. Dalle periodiche interviste nella casa milanese della pittrice – che solo successivamente scoprimmo essere legata ad ambienti per così dire sbagliati – emerse il ritratto di un uomo sofferente, che nascondeva dietro alle violenze la sua fragilità e il suo difficile passato da indio, ma sapeva essere anche tenero e sensibile. Grazie all’intercessione della fidanzata (non ufficiale) di Monzón, che aveva avuto buona visibilità sul giornale, ottenemmo l’intervista al pugile, realizzata dal collega Riccardo Romani. Oggi, Elizabeta è tornata alla ribalta come diva del burlesque milanese ma, all’epoca, se non altro ci diede un’immagine meno convenzionale del protagonista di uno dei più clamorosi casi giudiziari dell’Argentina. Insomma, la storia extra-pugilistica di Monzón andrebbe raccontata anche in chiave televisiva, con maggiore profondità e introspezione psicologica.

Il culto degli eroi dannati, particolarmente popolare nella boxe, si è alimentato comunque a lungo del “caso Monzón”, uno dei tanti campioni che proprio le imprese del ring hanno strappato all’inferno della violenza di strada ma che, in quel girone dantesco, sono tornati a precipitare a carriera finita.

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