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Altro che indignarsi una sentenza non ha privacy

Nessuna violazione dal Giornale: la Cassazione sancisce che nelle sentenze i nomi sono pubblici

Altro che indignarsi una sentenza non ha privacy

Caro Vittorio,
oggi per il Giornale avrei dovuto scrivere un articolo sull’attacco di Tremonti agli economisti, che non hanno previsto la crisi, come maghi che non ne azzeccano una, pane per i miei denti, ma lo farò domani, perché adesso mi preme darti tutta la mia solidarietà, per l’articolo sul direttore dell’Avvenire, un giornale che ha i suoi tic catto-comunisti, ma non ha necessariamente le carte in regola per farlo.
Tu hai citato giustamente l’ipocrisia del direttore che ha attaccato sul piano morale il premier Silvio Berlusconi, fiancheggiando la furibonda campagna estiva contro di lui e il suo governo, lanciata dal Pd e dai giornali ad esso alleati. Il direttore dell’Avvenire è stato condannato con una sentenza, passata in giudicato, per molestie a un signora regolarmente sposata a un uomo, con cui questo direttore aveva probabilmente una relazione.
Come tu hai scritto, chi lancia accuse moralistiche, riguardanti gli errori nella vita privata e verso la famiglia, di una personalità pubblica, traendone implicazioni di carattere etico e politico, circa la scarsa idoneità di tale personalità nella vita pubblica, deve avere le carte in regola per farlo, onde essere credibile dal punto di vista di tali pesanti implicazioni. Ma se risulta che colui che lancia le accuse, nel ruolo pubblico di direttore di un importante giornale, ha commesso atti privati lesivi della altrui famiglia, che sono stati accertati con sentenza di condanna passata in giudicato, se ne desume che le illazioni che egli trae a carico del premier Berlusconi come uomo pubblico sono sbagliate.
Infatti per ammettere che fossero giuste, bisognerebbe anche ammettere che anche il direttore dell’Avvenire che le lancia non ha titolo per dirigere un giornale che fa prediche morali. Ma se si ammette che questo direttore non ha titolo per fare tali prediche, le critiche che egli fa non sono dotate di alcun valore. Sono carta straccia. Il teorema mi pare ineccepibile. E, aggiungo, c’è un’ulteriore importante differenza, fra di due casi. I fatti privati per cui Berlusconi è stato criticato non sono affatto provati sono presunti e lui li smentisce. Invece il «moralista» che viola il precetto «chi è senza peccato scagli la prima pietra» ha subito, per i fatti in questione, una condanna passata in giudicato. E traendo illazioni da accuse di parte di cui non ci sono prove, viola il principio «non cercare la pagliuzza nell’occhio altrui, se hai una trave nel proprio».
Silvio Berlusconi, che è un gentiluomo, si è dissociato dalla pubblicazione che questo giornale ha fatto, della sentenza di condanna del direttore dell’Avvenire perché è contrario a ogni violazione della privacy. Tuttavia, in questo caso tale violazione non c’è. Infatti, in un comunicato dell’Ordine dei giornalisti del 2007, a tutti accessibile in Internet, si legge testualmente che «la Corte di Cassazione e anche i Tribunali e le Corti d’Appello possono rilasciare copie integrali delle sentenze ai giornalisti senza oscurare il nome degli imputati. Lo aveva chiarito la relazione 5 luglio 2005 dell’Ufficio del Massimario della stessa Corte intervenendo a seguito di precise richieste da parte dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. La questione era nata a seguito dell’istanza di un imputato per reati sessuali che, appellandosi all’articolo 52 del Dlgs n. 196 del 2003, aveva sollecitato che il proprio nome pubblicato sulla sentenza fosse «sbianchettato».
Ciò che scrive questo comunicato è ovvio. Scopo precipuo dei processi penali, anche quando si conchiudono con una condanna simbolica, è di far conoscere una verità di pubblico interesse. «La verità ci rende liberi». Questa frase ispirata a Sant’Agostino la disse Teresio Olivelli, di cui è in corso la causa di beatificazione, nel lager nazista, poco prima di morire, per le percosse di un aguzzino, avendo difeso con il proprio corpo un compagno di prigionia. La frase è scritta nella lapide dedicata ad Olivelli, nel Collegio Ghislieri dell’Università di Pavia, di cui egli era stato il giovane rettore. Io l’ho imparata a memoria e vedo che questo principio è sviluppato nell’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate in cui, fra l’altro, si legge «La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo privo di contenuti relazionali e sociali».

Credo che questa sia la missione del vero giornalista, che tu Vittorio, persegui.

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