Altro che no global il cibo biologico è una cosa da ricchi

Il prezzo degli alimenti naturali può essere anche il quadruplo rispetto a quelli normali e il mercato è sempre più globale: ormai anche le grandi catene puntano sui prodotti organici

Eleonora Barbieri

da Milano

Biologico, pulito, sicuro. E costoso: la vita sana non è per tutti. L’istinto, quello che porterebbe ad associare il «naturale» a una comunità di giovani cresciuti ma ancora un po’ hippy o a giovani non ancora cresciuti e un po’ no global, è da rivedere: biologico fa rima con élite, quella che può permettersi di pagare una confezione di crackers il triplo del prezzo normale. O un chilo di farina quasi il quadruplo: come dire che prima di cucinarti una pizza con ingredienti tutti biologici è meglio accendere un mutuo.
La vita verde è un business globale: l’eco-biologico invade ogni settore, dall’abbigliamento agli accessori, dalla verdura all’automobile, dal bagnoschiuma alla sedia. È una moda, un mondo a sé, con i suoi guru e le etichette più chic. Tanto che la rivista Time ha dedicato il supplemento estivo «stile e design» proprio al Green living, ponendosi una domanda: «La sostenibilità è il nuovo lusso?», ovvero: vivere rispettando i precetti dell’ambientalismo, comprando soltanto prodotti compatibili e di origine sicura è una possibilità per pochi e, quindi, l’ultimo sfizio offerto dal mercato?
Biologico, infatti, si coniuga sempre più anche con «globale», per soddisfare una richiesta in continua crescita: negli Stati Uniti, ad esempio, il colosso Whole foods, che ha trasformato il supermercato nel regno dei prodotti naturali (organic per gli anglosassoni), offre ai clienti asparagi argentini, carne neozelandese, lamponi messicani. Niente pesticidi, ma tanta strada da fare, cioè petrolio. Il giro d’affari è così allettante che Steve Case, uno dei fondatori di America Online, l’anno scorso ha deciso di investire venti milioni di dollari in Gaiam, la società di prodotti naturali e per lo yoga di Jirka Rysavy, un europeo emigrato negli Stati Uniti a metà degli anni Ottanta senza un soldo e che, nel giro di dieci anni, è riuscito a diventare una star. Nel 1995 è stato nominato «imprenditore dell’anno» e la sua Gaiam valeva già un miliardo di dollari. Lui continua a vivere imperterrito in un tugurio in Colorado, senza neppure l’acqua corrente. Case non si è accontentato di «sostenere» Rysavy e ha fondato una sua «holding sostenibile», la Revolution Llc, base di partenza mezzo miliardo di dollari, con investimenti anche nel portale Lime (6,5 milioni di abbonati).
I consumatori eco-consapevoli sono disposti a spendere cifre sopra la media, ma sono esigenti: guai a scovare nel caffè o nel tè biologico l’ombra del non-solidale o una percentuale nascosta di materiale chimico nel tessuto organico. Il naturale però, come ogni bene di lusso, è desiderato da sempre più persone, tartassate dagli slogan ambientalisti e dallo stile di vita «sano» trasformato in ideale supremo: così la Wal-Mart, il gigante della grande distribuzione ha deciso di investire nel biologico, puntando a quello che il New York Times ha definito un «naturale di massa». Aspettative: prezzi più bassi, minore qualità. D’altronde la «mercificazione del biologico», secondo il Washington Post è già una realtà, criticata da alcuni ma vista da altri come una grande opportunità: sono in molti ad invidiare la Stonyfield Farm, produttrice di yogurt e gelati rigorosamente privi di pesticidi e antibiotici che tre anni fa è stata assorbita dalla francese Danone. La Stonyfield ha cominciato nel 1983 «con sette mucche»: ora è un marchio di fama, adorato da Leonardo Di Caprio, Bruce Springsteen, Cindy Crawford e Olivia Newton John. Le celebrità paladine della natura non sono una novità ma, ora, sono gli eco-produttori a diventare star. Come la stilista Linda Loudermilk, che ha deciso di trasformare la passerella in un campo di battaglia ambientalista: la sua linea, per non dar adito a equivoci, si chiama «Luxury eco» e gli abiti sono realizzati in bambù, seta ecologica e «sasawashi», una fibra giapponese dalle proprietà antiallergiche e antibatteriche.
Il suo cliente (Jane Fonda e Roseanne Arquette, ad esempio) è il «naturalista metropolitano»: una persona «artistica e amante della città - ha spiegato a Time - creativa e che compie scelte fuori dal comune». Infatti un capo costa dai 350 ai 1.700 dollari (da 270 a 1.330 euro). Sull’altra sponda dell’Atlantico, la più famosa stilista di eco-fashion è Ali Hewson, moglie del leader degli U2 Bono. Un anno fa, insieme al designer Rogan Gregory ha lanciato Edun, linea di abbigliamento solidale: con un occhio alla qualità degli indumenti e l’altro al commercio equo è ormai diventato un marchio di successo.
Stessa musica nel mondo del design: una chaise-longue in sughero riciclato può costare 4mila euro, un tavolino di un marchio-culto come l’olandese Piet Boon si paga 500 euro. E poi ci sono vernici, infissi, sedie da ufficio, disinfettanti, detersivi, saponette, pentole: tutto l’occorrente per un appartamento bio e di lusso.

Danny Seo, esperto di bon-ton al naturale e autore di una guida per feste eco-chic, ha una teoria chiara: «La gente vuole una casa elegante, alla moda. Se non lo è, se ne frega di quanto è “verde”: è soltanto una questione di stile».

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