Altro che pattuglie interforze anche loro stanno a guardare

Così il nostro cronista s’è improvvisato accattone senza avere problemi

Altro che pattuglie interforze anche loro stanno a guardare

Il «bar» dei romeni è sul lato Est. Egiziani e marocchini stanno dalla parte opposta. In mezzo, peruviani e cinesi. Una delle leggi non scritte della stazione Centrale, niente di più naturale in un posto che resta senza regole. C’è uno che tira fuori la borsa piena di ghiaccio ed espone la sua merce «fresca». Non si fa credito, le birre e gli alcolici non li regala certo a nessuno. Per consumare, poi, altro che tavolini: davanti hai tutto lo spazio che vuoi, marciapiedi, aiuole e scalini. Alla fine puoi pure mettere in fila le lattine e provare ad abbatterle a colpi di sassi. Per chi se ne sta lì senza far niente in piazza Duca D’Aosta, a ogni ora, dopotutto è un passatempo divertente, e giù urla dopo ogni «strike». Ma se invece non hai abbastanza spiccioli è meglio girare i tacchi e buttarti di nuovo per terra a raccattare monetine, d’altronde è facile mischiarsi alla schiera di disperati e provare cosa significa, almeno per un giorno, vivere di elemosina nella terra di nessuno. Eppure da sabato erano stati rafforzati i «pattuglioni» interforze per contrastare i soliti mali della Centrale: degrado e criminalità, soprattutto straniera.
Ore 11: sulle scale del metrò

Spuntiamo da un angolo e subito ci sistemiamo di fronte all’onda di gente che come una marea sale e scende dalle linee Atm. Non servono parole per chiedere soldi, la confusione le coprirebbe, basta uno sguardo e infatti la risposta è negli occhi dei pendolari. E a nulla serve intralciare il traffico. Perché tutti hanno un treno o un appuntamento da rincorrere.
Ore 12: la biglietteria

Meglio entrare in stazione e cercare fortuna alle biglietterie automatiche. «Ho bisogno di mangiare qualcosa, posso avere il resto?», «Devo prendere il treno per tornare e casa, per favore aiutatemi», il campionario delle scuse è vario. La solita indifferenza, la ragazza con l’I-pod infilato nelle orecchie che si volta dall’altra parte, quello in giacca e cravatta che pensa sia un pretesto per rubargli il portafoglio e fugge via, la signora che ti tratta come un figlio da riportare a casa. Ma con un po’ di tenacia e tanta insistenza le tasche cominciano a riempirsi. Giusto il necessario per un panino e una bottiglia d’acqua. Fuori, sul prato, già apparecchiano. Adesso il bivacco avrà un «invitato» in più.
Ore 13: pranzo sull’erba
Vietato calpestare il verde, lo sanno anche i bambini. Meno i sudamericani e nordafricani che fanno delle aiuole una mensa a cielo aperto. Giornali stesi al posto delle tovaglie e piatti di carta, bottiglie di vetro e tappi che volano. Sarà per la bella giornata di sole, e così qualcuno ha portato anche la radio. Musica a tutto volume. Due vigilesse passano, guardano e cambiano strada. Il pranzo è servito.
Ore 14: riposino

in carrozza
Il caldo picchia forte e viene proprio voglia di sdraiarsi, ma all’ombra. E mentre l’Amsa cerca di rimediare a quel che resta del pic-nic con uomini armati di guanti e ramazza, decidiamo di tornare in stazione. Anzi, proprio sui binari. Superato l’andirivieni di chi arriva e di chi parte, imbocchiamo il tronco del 22. Non prima, però, di dare una sbirciata nel cestino dei rifiuti proprio davanti alla sede della Polfer. Nessuno ci ferma, ma il bottino è magro. Solo cartacce. E non c’è un’anima nemmeno attorno a un regionale fermo. Vuoto. Con le portiere spalancate. L’ideale per una pausa in tranquillità, al fresco e in silenzio. Strano, anzi, non trovare altri «colleghi» a bordo. Almeno su questo treno. Scendiamo, risaliamo nella pace più assoluta. Arriviamo addirittura fino in fondo alla locomotrice. Sorpresa, tirando la maniglia, si apre anche la cabina di guida. Torniamo indietro, facciamo un giro all’interno dei vagoni, scegliamo il posto più comodo e abbassiamo i finestrini. E buonanotte. Dopo un’ora buona comincia a riempirsi di passeggeri. Forse è il caso di riprendere a «lavorare».
Ore 15-18: fantasma nella polvere

Stavolta ci piazziamo nell’ordine: sotto il gabbiotto dei carabinieri, appena fuori dal supermercato ai binari, davanti alla farmacia, perfino nella sala d’attesa coperta e «custodita». Tre ore, centottanta lunghi minuti tra forzata compassione e malcelato fastidio dei passanti.

Mai nessuno tra forze dell’ordine, personale di Trenitalia e volontari dei City Angels si è avvicinato per chiederci un dettaglio: i documenti. E i pattuglioni? Una coppia di poliziotti ci sfiora e basta. Prima di sporcarci sull’asfalto della Centrale la metafora dei barboni e degli sbandati, gli «invisibili», suonava abusata. Ma è davvero realtà.

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