Tutti sanno che Pontida esiste. Alle elementari hanno imparato che in questo piccolo Comune (tremila abitanti scarsi), all’interno di una abbazia benedettina, nel 1167, si costituì la Lega Lombarda che sconfisse la potentissima armata germanica. Sai che soddisfazione. I tedeschi sono sempre stati la nostra fissazione. Ma da Barbarossa alla Merkel è caduta tanta acqua su Pontida, e qualcosa è cambiato. Continuiamo a non amare i teutonici, però li stimiamo, li guardiamo con invidia perché sono più bravi di noi e quando li battiamo in una partita di calcio - capita spesso - ci riempiamo di orgoglio (solo sportivo).
Novecento anni dopo il Giuramento, il Nord non ha più risentimenti nei confronti dei tognini: anzi, li ammira e vorrebbe essere come loro, seri e determinati, disciplinati e rispettosi del bene comune. Ma non ce la fa a imitarli. Perché? Colpa dei terroni, pensa per consolarsi. Eccoli i nuovi nemici della libertà. Siamo schiavi di Roma ladrona e ad essa dobbiamo ribellarci per assomigliare ai tedeschi o, almeno, ai nostri avi che li misero in riga. Da oltre vent’anni la rinata Lega di Umberto Bossi coltiva il sogno della secessione. Un sogno inconfessato in pubblico, ma assai accarezzato in privato. E qualche volta i leghisti, presi dall’entusiasmo carburato da qualche «bianchino» di troppo, si lasciano andare: vogliamo che la Padania diventi una Repubblica autonoma e indipendente. Indipendente da chi? Dal Meridione.
È successo anche ieri: mentre Bossi parlava con voce stentata ai convenuti sul sacro suolo di Pontida, si è spesso udito, chiaro e netto, il grido «se-ces-sio-ne». La quale forse non è più un punto programmatico per le camicie verdi, però rimane la loro massima aspirazione: come il Paradiso per i cattolici. Esse si adattano soffrendo alla realpolitik, che impone di accettare alleanze e compromessi, mediazioni e trattative coi professionisti della politica politicante, ma in fondo al loro cuore arde il desiderio che un giorno la Padania si stacchi dallo Stivale e diventi la Patria felix di ogni polentone. Bossi, pur dimezzato nel proprio carisma dalla crudele malattia che lo ha colpito anni orsono, è ancora capace di alimentare, e al tempo stesso di disciplinare, le speranze della base. «Calma ragazzi - dice in sostanza il condottiero ferito- , dobbiamo essere realisti ed avere pazienza. Qualcosa abbiamo portato a casa, roba importante tipo il federalismo, e altro porteremo. Se Berlusconi ci dà retta, andiamo avanti, sennò alle prossime elezioni ci rimetteremo in proprio. Chi afferma che da soli non campiamo, sbaglia di grosso: siamo una forza del dieci per cento e potremo sempre dire la nostra».
La folla applaude. Si entusiasma, è contenta di apprendere che la Lega non ha deposto le armi. Il vecchio leader, a proposito di armi, pesca qualche frase nel bagaglio lessicale popolare per dimostrare ai suoi di non essere stato contaminato dai bizantinismi in uso nella Capitale. «Il Pd - borbotta l’Umberto - ironizza sulla spada di Alberto da Giussano; non è il caso. La spada ci serve per non farcelo mettere in quel posto».
Gol. La gente esulta, ride e approva. Sventolano bandiere bianche e rosse, alcune più rosse che bianche. Il prato adibito da quasi un quarto di secolo a tempio padano, dove ogni anno si svolge la rituale cerimonia celebrata dal sommo pontefice, è intasato: uomini e donne di ogni età hanno lo sguardo rivolto al palco, ammaliati dal capo. Sono migliaia, molto più numerosi che in passato. Ricordo il primo raduno perché c’ero. Nulla in confronto a questo che ha un pubblico talmente folto da sembrare quello di un derby. E dire che i soliti fighetti di sinistra avevano preconizzato: «Pontida sarà un deserto». Per fortuna. Arrivare qui da Lecco, da Milano e da Bergamo è stato come percorrere la Parigi-Dakar: traffico micidiale, colonne lumachesche di auto, parcheggi drammatici. Una bolgia.
I leghisti saranno impazienti e nervosi, ma sono ancora parecchi e fedeli, persone semplici e cordiali, ricche di fiducia (ci auguriamo ben riposta). Il fenomeno Carroccio non è in fase calante e Bossi è ancora considerato un profeta, piaccia o no a chi incautamente lo aveva dato per spacciato perché con Berlusconi ha perso le amministrative a Milano e al referendum ha fatto cilecca.
A Pontida, secondo le fallaci previsioni degli osservatori politici, doveva esserci il funerale della coalizione di governo. Al contrario, il fondatore della Lega ha ribadito l’intenzione di non abbandonare la maggioranza: «Non ci prendiamo la responsabilità di mandare in malora il Paese e di consegnarlo alla parte sbagliata». E ha precisato: «Se salta il centrodestra, occorre tornare subito alle urne. Ma correre a votare adesso sarebbe imprudente, perché in questo momento va la sinistra; ogni quindici anni in Italia cambia il vento, bisogna resistere e reagire, mutare registro, costruire invece di distruggere».
Il lettore avrà già capito il senso del discorso bossiano. La Lega non rompe il «contratto» col Pdl. Pretende semmai di rafforzarlo. E lui, il marpione di Cassano Magnago, quando ha citato Berlusconi e Tremonti, si è premurato - a scanso di equivoci - di far precedere i loro nomi dall’aggettivo «caro». Proprio così: «Caro Silvio e caro Giulio, per marciare si può marciare, ma dipende da voi. Bisogna placare la voracità del fisco, favorire gli artigiani e le piccole imprese, che sono la spina dorsale del Nord e del Paese; far saltare il patto di stabilità per i comuni virtuosi, cui va consentito di spendere i soldi accantonati, riscrivere il bilancio dello Stato, tagliare gli sprechi. Coraggio, si abbassi la cresta a Equitalia che perseguita i contribuenti con multe ed esazioni odiose, ai confini dello strozzinaggio».
Bossi non l’ha tenuta lunga: mezz’ora di comizio, un po’ di miele e un po’ di pepe per rabbonire senza addormentare l’uditorio. Un solo accenno teorico: «Berlusconi comprenda che i principi universalistici non attaccano più; serve concretezza, un occhio o, meglio, due occhi all’economia ché solo questa, ormai, determina i destini del mondo». E una sentenza sulla politica internazionale: «La guerra alla Libia è un costo enorme e non risolve nulla; peggio, ci penalizza. Diamoci un taglio».
L’intervento del capataz,cominciato con il consueto attacco ai giornalisti antileghisti («lecchini di Roma ladrona»), rei d’aver vaticinato la crisi del Carroccio, è finito con un altro attacco agli stessi scribi: «Grandissimi stronzi». Giudizi severi, ineleganti, ma non privi di verità, comunque condivisi non solo dalla Lega ma pure dall’intero arco costituzionale e, forse, anche da una quota cospicua della categoria interessata cui non mi onoro di appartenere, visto come tratta me e Alessandro Sallusti, direttore del Giornale . Non fa niente.
Vi risparmio altre note cosiddette di colore. Mi limito a riferire che sul dosso prospiciente il prato delle delizie padane campeggiava uno striscione bianco con la seguente scritta nera: «Maroni presidente del Consiglio ». Una minaccia o un auspicio? Non saprei dire.
Sta di fatto che lui, Maroni, non si è certo montato la testa: si è presentato a Pontida in scooter, poi diligentemente posteggiato nell’apposito spazio. Solo il figlio di Bossi, soprannominato Trota, ha superato in modestia il ministro dell’Interno: ha affrontato la trasferta in terra bergamasca in bicicletta, giungendo a destinazione trafelato ma puntuale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.