Cultura e Spettacoli

Amelia Rosselli ovvero la lingua della poesia

Forse l’ossessione fondamentale che attraversa l’opera di Amelia Rosselli (1930-96) può venir riassunta in una frase valida anche come epigrafe: ha tentato di sintonizzarsi con un dettato che non proveniva né dall’io né dall’inconscio, e neppure da zone disperse o rimosse del vivere, bensì da una sorta di anima mundi verbale. Perché, in fondo, era una lingua assoluta quella di cui andava, sempre, alla ricerca. Con risultati, a volte, di impressionante efficacia.
È quasi un assioma che la tenuta d’un autore di versi si misuri soprattutto nella capacità di liberare la lingua naturale dall’usura, dall’ossificazione, dall’abitudine. Per assumerla, praticarla, riviverla come lingua «straniera», quasi fosse parlata, ascoltata o scritta da un esule. E da questo punto di vista Amelia Rosselli, creatura trilingue perché costretta dalla vita e dalla storia a un esilio reale per qualche verso infinito, poteva a buon diritto vantare un unico, tetro e grandioso apprendistato che l’ha portata (quasi per un destino, affermava Giovanni Giudici) a diventare una delle più alte, anomale voci poetiche del secolo appena passato.
Amelia Rosselli si esprimeva in tre lingue ma, in verità, non ha scritto in nessuna delle tre: «Mi misi - dichiara in Allegati metrici del ’62 - ad un certo punto della mia adolescenza, a cercare le forme universali». E questa ricerca dell’universale (una ripresa, o una nuova tappa del sogno dantesco di un parlare edenico?) iniziava nello smuovere, sondare i settori più bassi, infimi, elementari della lingua (ma anche, non va dimenticato, della grafìa), quelli anteriori alla storia e alla divisione in idiomi standard. Lì, si accaniva a rintracciare le unità minime di significato, i legami, le similutudini e le differenze: in una zona ancora vaga, sospesa, al confine tra lo strato della ritmicità pura, astratta e quello dove iniziano a funzionare le ripartizioni morfologiche. La sensibilità verbale di Amelia Rosselli tastava, dunque, il terreno delle assonanze, delle omofonie e passava, immediatamente, a costruire i suoi reticoli di significato, i suoi codici, i suoi ordini. Ne deriva un tessuto discorsivo potente, radicalmente ed eversivamente soggettivo ai limiti del solipsismo, allucinato, sovraccarico di senso e di sospensioni, di allusioni, di rallentamenti. Disseminato da effetti di surrealtà, biografismo onirico, spaesamenti. È il canzoniere di chi, dopo un viaggio, non è mai del tutto ritornato a casa, vive un disagio venuto da lontano e racconta una esistenza, letteralmente, spezzata o scomposta da quelle che definisce «le cantonate della vita». Benché comporanea alle Neoavanguardie, Amelia Rosselli non va ascritta a nessuna poetica: è uno dei rari autori italiani capace di far scorrere il gioco delle associazioni con ispirazione e senza sorveglianza, di afferrare con sciatto candore l’attimo in cui la cura del poeta verso la lingua «deve» trasformarsi in assenza di controllo perché si smuovano le energie latenti e il flusso verbale segua il suo corso, a costo di decomporsi o incancrenirsi. Con risultati d’oracolarità violenta, oscura, magmatica. E di misticismo, e di altissima, improvvisa e inattesa grazia. Dove, paradossalmente, la voce di chi parla si ritrova a essere passiva, impotente e sottomessa a un dire che la trascende e la domina, la imprigiona in una necessità. Sono i casi in cui si avverte, davvero, il suono (o la luce, o il telos) di quella lingua universale che Amelia Rosselli ha, talvolta, realmente ascoltato.

Prima di morire, esattamente dieci anni fa: l’11 febbraio 1996.

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