Americani, precisi, discreti: talvolta i crimini sono da Pulitzer

Da Kennedy al massacro della Columbine, otto grandi inchieste che hanno ispirato anche Hollywood

Quando James W. Mulroy e Alvin H. Goldstein, giovani cronisti alle prime armi del Chicago Daily News, in quella giornata di fine maggio del 1924 misero in relazione il ritrovamento di un cadavere non identificato con il rapimento di un rampollo della Chicago bene, probabilmente speravano solo che quell'intuizione aiutasse loro e la polizia a scoprire la verità; quando poi, in un pomeriggio di pioggia, si ripararono in uno dei locali del campus universitario in cui avevano studiato fino a poco tempo prima, di certo non speravano minimamente di incontrare uno dei due assassini, né tantomeno che sarebbe stato proprio lui, in pieno delirio di onnipotenza, a metterli sulla pista giusta. Per non parlare del prestigioso premio Pulitzer che avrebbero vinto l’anno dopo grazie a quell’inchiesta. Oggi il loro lungo reportage fa parte di Omicidi americani. Da Kennedy a Columbine i grandi fatti di sangue raccontati dai premi Pulitzer, pubblicato da minimum fax (pagg. 307, euro 15), una raccolta di otto inchieste su altrettanti casi che sconvolsero l'America tra gli anni Venti e il 2000.
Leggendolo, è impossibile non rivedere mentalmente le immagini dei film che quei fatti ispirarono ad Alfred Hitchcock e ad altri famosi scrittori e cineasti. Mentre scorriamo, ad esempio, la cronaca secca e precisa di Meyer Berger, cronista di punta del New York Times nel 1949, viene spontaneo pensare a Un giorno di ordinaria follia: Howard Unruh, persona di «indole mite e voce pacata», esce di casa impugnando la sua Luger e massacra con freddezza chirurgica i suoi vicini colpevoli di «commenti offensivi sul suo carattere». Così come, leggendo del diciottenne e del diciassettenne che trasformarono in una «zona di guerra» la Columbine High School, dove fino a quel momento «non c'era mai stato nemmeno un caso di goliardia», non possiamo non rivedere le gelide immagini del film Elephant di Gus Van Sant.
Va da sé che le inchieste siano modelli di chiarezza. Lo stile sobrio, la ricchezza dei dettagli, la costruzione lineare: ogni capoverso è scritto nell’osservanza della regola fondamentale, il rispetto per il lettore, e in vista dello scopo primario: raccontare i fatti in modo che chiunque sia in grado di capirli senza bisogno di una laurea in legge o in criminologia. In una parola, senza sentirsi un idiota. Altra regola rispettata è la discrezione. Parlare sempre e solo dei fatti e mai del cronista stesso, delle sue emozioni, delle sue opinioni.
Eppure in certi momenti è inevitabile avvertire la partecipazione al dolore che queste storie portano inevitabilmente con sé. Ad esempio quando il cronista che sull’Air Force One, l’aereo presidenziale, ha appena assistito al giuramento del successore a poche ore dall’assassinio di J. F. Kennedy, è testimone del pianto dirotto di un suo stretto collaboratore.

Del resto, il gesto stesso di raccontare questi fatti tragici affinché ne rimanga un perenne ricordo, un monito, un mito, non è già in sé e per sé un atto di profonda pietà? Quella pietà che una società moderna tributa giustamente alle vittime degli orrori che possono colpirla.

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