
Le visciole hanno il sapore dell’Est. Una punta d’acido che sveglia la lingua, un rosso che macchia le dita e fa sembrare bambino anche un generale. Le vedevi nei pani e nei vini contadini, nelle crostate di un’Italia che non aveva fretta, e prima ancora in certi cesti venuti dal Ponto, dove il vento del Mar Nero s’incunea tra i monti come una tromba marina. Le visciole sono sorelle povere e geniali della ciliegia, e la loro leggenda, in Italia, comincia con un uomo dal nome lungo come una strada: Lucio Licinio Lucullo. Fu lui, dicevano i vecchi romani, a strappare i frutti al giardino dei re d’Asia e a portarli qui come un trofeo commestibile, una piccola vittoria che fiorisce ogni primavera. Plinio ne faceva una prova di conquista: prima delle sue campagne nel Ponto non c’erano ciliegi a Roma; dopo, sì. Che poi fossero visciole, ciliegie dolci o entrambe, importa fino a un certo punto: dietro a quei frutti c’è un’idea di mondo. Portarsi a casa un sapore, come un esercito porta a casa un impero.
Lucullo entra in scena dalle cucine, paradosso per un comandante. Ma il gusto è solo un altro modo di dominare il caos, di dare ordine a ciò che sfugge. Il suo curriculum odora di polvere di strada e di sale: questore giovane in Oriente, poi la grande impresa contro Mitridate, il re veleno, che aveva nel sangue la chimica dei veleni e nelle vene la mappa di tutta l’Asia Minore. Lucullo non amava gli schiamazzi della politica urbana; preferiva le marce, i piani inclinati, le simmetrie delle legioni. Accerchiò Mitridate giocando di nervi e di fame: la guerra non è solo acciaio, è logistica, è pazienza, è il modo in cui pieghi il tempo finché l’altro sbaglia.
Ci sono battaglie che si studiano perché sembrano un teorema. A Tigranocerta, in Armenia, il 6 ottobre del 69 avanti Cristo, Lucullo si presenta con un esercito più leggero e più povero di cavalli rispetto alla marea di Tigrane, re dei re, genero di Mitridate. Fa finta di arretrare, attraversa un guado come chi va a prendere acqua, poi rovescia l’ala giusta, spezza la cavalleria corazzata, trasforma la massa nemica in polvere. È una di quelle vittorie “romane”, asciutte, senza trombe, dove l’intelligenza del terreno conta più dei ruggiti. Dopo, la città cade come una porta che qualcuno aveva solo dimenticato di chiudere. Non vincerà la guerra — lo fermeranno la stanchezza delle truppe e l’invidia dei colleghi — ma vincerà il racconto, che è una forma di vittoria
più duratura.
Il suo Oriente è geografia e biblioteca. Lucullo ascolta filosofi fra un accampamento e l’altro, mette a bordo i libri come fossero macchine d’assedio, discute con Antiocho di Ascalona, che predica una verità possibile contro lo scetticismo che paralizza. Non è un sofista da triclinio: è un uomo che torna dalle pianure di Anatolia e porta alla mensa un’idea della mente come strumento di governo. Lo capì Cicero, che gli dedicò un dialogo — “Lucullus” — dentro quelle Academica dove Roma s’allenava a pensare con parole greche e ambizioni latine. Lì, nelle pause tra accuse e difese, si forma la maschera del generale che ragiona e che parla, capace di oratoria solida, senza la grazia magnetica dei mostri sacri, ma con la dignità di chi sa dare una forma giusta alle cose.
E poi Roma. Il suo ritorno è una cerniera: dietro l’Oriente, davanti la bella vita, espressione che con lui smette di essere sospetto di mollezza e diventa artigianato della felicità. Lucullo non si nasconde: costruisce giardini sul Pincio, i primi grandi horti che inventano l’idea stessa di una collina abitata come un quadro. Acqua, ombre, viali, statue che non opprimono, ma accompagnano. Sono un manifesto urbano: Roma non dev’essere solo foro e circo, ma anche respiro, luce filtrata, una pausa consapevole tra due chiamate del destino. Quei giardini saranno ambiti, rubati, imperiali; ma restano, nel loro disegno, un atto politico: mostrare che la potenza ha il dovere dell’eleganza.
Attorno a lui si organizza una liturgia del convivio che non è solo gola. Nasce il mito della “cena luculliana”, che i secoli useranno come proverbio. Ma in quella tavola c’è un’idea di conoscenza: il palato come enciclopedia, la pietanza come citazione geografica. Una sera arrivano Cicero e gli amici senza preavviso e chiedono: «Come se fossimo invitati». Lui alza un sopracciglio, indovina le loro intenzioni, e fa servire una cena degna di un triumphus. E quando un giorno gli propongono di ridurre il fasto perché è solo, risponde, con un sorriso che taglia come un pugnale: «Oggi Lucullo cena con Lucullo». È vanità? È disciplina, piuttosto: l’opera non dipende dagli ospiti, ma dal gesto.
Bisogna onorare la forma, anche quando il pubblico è uno. C’è, certo, lo sfarzo che irrita i moralisti. Sulla costa campana Lucullo addomestica il mare: scava gallerie nelle colline per portare acqua salata ai vivai di pesci, disegna moli, allunga la terra come se fosse una tovaglia. Qualcuno — Tubero lo stoico, Pompeo per malizia — lo chiamerà “uno Serse in toga”. L’epiteto è cattivo e geniale: il persiano che buca il monte Athos tradito nella versione romana da un patrizio che buca una montagna per nutrire murene. Ma dietro la battuta resta un talento ingegneristico che ama la sfida al paesaggio. Perché la bella vita non è un adagiarsi, è un fare. Il lusso, per lui, è costruzione: giardino, biblioteca, cucina, vasca — ciascuna una piccola civiltà.
Se lo guardi bene, Lucullo non è l’uomo che mangia per dimenticare la guerra. È il contrario: è il generale che, conoscendo la ferocia del mondo, pretende che il giorno, qualche volta, sia all’altezza della pace che merita. Il suo epicureismo è romano: non la fuga nel piacere fine a se stesso, ma la scelta di quelli che ordinano l’anima. Epicuro insegnava l’arte di desiderare il giusto; Lucullo aggiunge la responsabilità della forma. Il piacere, senza scuola, marcisce. Con una scuola, educa. E i suoi horti si comportano come un libro: entri e impari un ritmo, capisci che la città può essere più dolce del suo rumore, che il potere può essere utile senza urlare.
Non fu un santo, non fu un eroe senza macchie. I soldati a un certo punto si ribellarono alla sua ambizione di spingersi oltre, come se l’orizzonte avesse chiesto troppa strada alle loro scarpe. La politica, che a Roma è sempre una stanza con troppi specchi, lo mise da parte con la grazia feroce di chi sa far fuori i migliori senza sporcarsi le mani. Ma la memoria non giudica con i tribunali: assorbe. E di Lucullo ha trattenuto quello che abbiamo ancora sotto gli occhi quando l’Italia è Italia: il senso che la vita, se può, dev’essere bella; e che la bellezza non è un fiore spontaneo, ma un mestiere.
Per questo viene voglia di tornare alle visciole. C’è in loro una morale tesa: non sono accomodanti come le ciliegie dolci, non si concedono gratis. Hanno bisogno di zucchero, di forno, di un vino che le accompagni. Ti chiedono di lavorare, di capirle. Sono il frutto di uno che ha capito l’Asia senza diventare asiatico, che ha piegato i giardini senza violentarli, che ha cucinato il mare senza distruggerlo. E quando rompi il primo boccone di crostata, capisci che la bella vita non è una stagione di sprechi, ma la conseguenza di un’idea: mettere in ordine il mondo per grazie successive, dal campo di battaglia alla tavola, dal libro al viale di allori, dall’ingegno alla pausa. Roma ha conosciuto altri generali più feroci, altri politici più astuti, altri oratori più irresistibili. Ma pochi hanno scritto con la stessa calligrafia l’arte di vivere.
Se la parola “luculliano” è diventata un aggettivo, è perché in quel nome c’è un programma: niente di urlato, tutto di costruito. E forse, ancora oggi, nell’ora in cui la città s’infiamma di tramonti sul Pincio, si può sentire il rumore segreto di quelle acque addomesticate, il respiro lungo dei giardini, il brindisi dei libri sugli scaffali. Una piccola, gigantesca civiltà: la bella vita come dovere verso ciò che siamo stati capaci di conquistare — anche solo una visciola che arriva dal Ponto e rifà a modo suo il gusto dell’Italia. E così Lucullo, il generale esteta, il filosofo con la forchetta, si congeda da noi con un gesto che è tutto romano: salva la forma per salvare la sostanza. Lo fa quando ordina i suoi horti come un discorso ben costruito, quando rovescia una cavalleria in campo aperto come si rovescia un sillogismo, quando risponde all’amico che chiede di risparmiare: «Oggi Lucullo cena con Lucullo».
C’è in quella frase l’educazione di un popolo: se vuoi che il mondo resti in piedi, devi onorarlo anche quando non ti guarda nessuno.