Lo ammettono soprattutto loro, gli anziani: l’unico vantaggio della vecchiaia è dire finalmente quello che si pensa senza contare nemmeno fino a uno, incuranti di convenienze e conseguenze. A 86 anni, evidentemente, il professor Veronesi sta scoprendo questo regalo sublime della senilità. E se lo gode alla grande. Superiore a qualunque gioco, libero da qualsiasi condizionamento, il valoroso oncologo lancia ormai ciclicamente i cosiddetti sassi nello stagno, godendosi poi lo spettacolo dei sommovimenti. Tempo fa aveva agitato il mondo dello sport chiedendosi perché mai non liberalizzi il doping, visto che le sostanze proibite vengono tranquillamente usate - e fanno benone - su malati anche gravi.
Adesso però alza il tiro: parlando alla presentazione della sua iniziativa «The future of science», sdogana drasticamente l’omosessualità. Parole sue: «L’amore omosessuale è più puro. In quello etero una persona direbbe “ti amo non perché amo te, ma perché in te ho trovato la persona con cui fare un figlio”. Nell’amore omosessuale invece non accade, è più evoluto e consapevole: si dicono ti amo perché “il tuo pensiero, la tua sensibilità, i tuoi sentimenti sono più vicini ai miei”…».
L’omoelegia è una risposta diretta al sindaco di Bologna, Virginio Merola, che recentemente ha lanciato un’iniziativa per la maggiore tutela delle coppie sposate, nonché al sindaco di Sulmona, Fabio Federico, che addirittura considera certe omosessualità «aberrazioni». Senza volerlo espressamente, è pure una concezione che si colloca agli antipodi rispetto a quella della Chiesa, pronta a difendere l’amore eterosessuale proprio perché ha come fine la procreazione.
Inutile specificare come comunque il professor Veronesi, il Veronesi grillo parlante e libero pensatore della terza età, stia già scatenando il finimondo. Il ministro Giovanardi gli assegna il premio «Delirio d’estate», ex-aequo con Vasco Rossi per la sua crociata contro le leggi che impediscono di guidare ubriachi. All’estremo opposto si pone Imma Battaglia, presidente «DiGay Project»: «Dai grandi uomini provengono parole di verità e di luce». In mezzo metterei Fabrizio Marrazzo, portavoce di «Gay Center»: «Non siamo abituati a definire migliore l’amore omosessuale rispetto a quello eterosessuale: ci basterebbe definirlo uguale».
Forse conviene partire proprio da qui, da queste ultime parole: definire un amore migliore, o più puro, di un altro, resta discorso pericolosamente acrobatico.
Certo rientra nella moda molto trendy e molto «socially correct» della difesa delle minoranze, dei deboli, dei diversi. Neppure il professor Veronesi si sottrae a questo conformismo di ultima generazione, che è poi il conformismo dell’anticonformismo. Cosa stiamo qui a dire: è chiaro a tutti come l’amore omosessuale non vada più demonizzato, tanto meno perseguito, come in certi tempi cupi e in certi luoghi arretrati del mondo. Ma questa è una cosa troppo banale, ormai, perché ancora si possa pensare di specificarla. È un dato di fatto, punto. E chi non la pensa così è un trinariciuto ottuso, con seri problemi personali.
Però stabilire classifiche dell’amore è tutta un’altra cosa. Certo esistono coppie omosessuali che si amano in modo più puro e disinteressato di certe coppie etero, ma ci sono anche milioni di coppie eterosessuali che si amano in modo molto più puro e più alto di certi pagliacci esibizionisti da gay-pride. Non è una verità sconvolgente: è la semplice verità di tutti i giorni.
E per favore, caro professore, lasciamo perdere i richiami ancestrali della procreazione: l’idea che uomini e donne si fiutino come ghepardi o come iguana per scegliersi una preda d’accoppiamento è francamente molto retrò. Molto scientifico, forse, ma molto vecchio e molto avvilente.
Alle volte, le combinazioni. Prof, mentre lei esprimeva questa teoria, noi del Giornale eravamo in una chiesa a celebrare il funerale di Consilia, la giovane moglie del nostro amatissimo collega Massimo Veronese. Se n’è andata a 47 anni per il male che lei, professore, combatte da una vita. Alla fine della messa, il nostro amico ha trovato la forza per salire sul pulpito e leggere una lettera «alla sua ragazza», l’ultima lettera d’amore prima di accompagnarla al cimitero.
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