"Gli amori della mia vita? Moglie, figli e... virus"

Alberto Mantovani è lo scienziato italiano più citato e influente nel mondo: "I vaccini sono un'assicurazione sulla vita e l'allarme è frutto di bugie. E della convinzione che certe malattie non ci siano più"

"Gli amori della mia vita? Moglie, figli e... virus"

Alberto Mantovani è nel suo ufficio all'Humanitas, l'Istituto clinico alle porte di Milano di cui è direttore scientifico e dove, alla Humanitas University, insegna Patologia generale. Dalle finestre grandi dello studio si vedono le montagne ed è una giornata di sole, «una giornata da scialpinismo» dice lui, che insieme all'arrampicata è una delle sue passioni montanare. Poi, dice Mantovani, che vanta (anche se lui non si vanta) il titolo di scienziato italiano più citato a livello internazionale, le passioni della sua vita sono «la moglie, i figli, i nipoti». E l'immunologia: «Ne sono innamorato». È la scienza a cui si dedica da anni, dopo essere passato per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti e la guida del dipartimento di immunologia dell'Istituto Mario Negri di Milano, con la ricerca e con ore e ore di lavoro, tutti i giorni, sabato e domenica compresi (e anche alla sera, «magari sto davanti alla tv, ma col computer...»). Ora parte di quello che ha studiato e scoperto è in un libro, Immunità e vaccini, da poco pubblicato da Mondadori e il cui sottotitolo è quasi un manifesto: Perché è giusto proteggere la nostra salute e quella dei nostri figli.

Perché un libro sui vaccini?

«Primo perché, come diceva Popper, chi ha il privilegio di un lavoro come il mio, cioè chi fa scienza, ha il dovere di spiegare nel modo più semplice e comprensibile quello che fa».

E che cosa spiega?

«Vorrei fare capire come funziona il sistema immunitario e perché è al centro della medicina. Basta vedere quanti spot ci sono di yogurt e integratori».

Vuole aiutare il pubblico?

«Vorrei fornire gli strumenti per capire e fare delle scelte. E poi, soprattutto, l'ho scritto perché nel nostro Paese c'è una situazione di grande allarme sui vaccini. È arrivato anche il monito dell'Oms perché, su alcune vaccinazioni, come quella del morbillo, nella copertura c'è una tendenza continua in discesa, da almeno cinque anni. E poi sono arrabbiato».

È arrabbiato?

«Ho servito per cinque anni in una iniziativa di salute globale, Gavi, che si occupa di fornire vaccini nei Paesi più poveri. Ecco, in questo settore l'Italia ha fatto bene, ci ha messo soldi, cuore e testa, oltre all'impegno per un nuovo vaccino anti pneumococco».

E che cosa non va?

«Il nostro Paese ha contribuito a cambiare la faccia del mondo: ci sono cinque miliardi di esseri umani vaccinati contro la polio, con un vaccino prodotto qui. Siamo grandi inventori e produttori di vaccini. Ne esportiamo più di quanti ne importiamo».

Siamo delle autorità nel settore.

«Ma è un delitto di cui non ne siamo fieri. Questa specie di dissociazione mi suscita rabbia. E preoccupazione».

Che rischi corriamo?

«Le racconto una cosa. Nell'autunno scorso un grande ematologo pediatra, Andrea Biondi, aveva in cura un bimbo di 18 mesi. Ora, lui questi piccoli li cura, hanno più del 90 per cento di probabilità di guarire. Sarebbe guarito dalla leucemia linfatica acuta».

Che cosa è successo?

«È morto di morbillo. È morto perché non poteva essere vaccinato e intorno a lui non ha funzionato l'immunità di gregge».

Che significa?

«Siamo una comunità, ci proteggiamo l'un l'altro. Se il numero di persone vaccinate è inferiore a una certa quota, che nel caso del morbillo è il 95 per cento, non siamo più protetti. Quel 95 per cento che si vaccina protegge chi non può vaccinarsi: i mille e cinquecento bambini col cancro e immunodeficienze; gli anziani con insufficienza renale, cardiaca o epatica».

Negli altri Paesi succede lo stesso?

«Negli ospedali americani, per i dipendenti la vaccinazione anti influenzale è obbligatoria. Negli Stati Uniti, capisce? Il Paese più liberale del mondo. Dopo un'epidemia di morbillo a Disneyland, in California non è più ammessa l'obiezione alla vaccinazione dei bambini: altrimenti non vengono accettati a scuola. C'è una forte dimensione di solidarietà nel vaccinarsi: per me è un dovere morale, verso quei mille e cinquecento bimbi con un tumore».

Ma perché oggi molti in Italia sono restii a vaccinare i figli?

«Per tre motivi. Primo, non abbiamo più la percezione di certe malattie. I vaccini sono vittime del loro stesso successo. Non sappiamo più che cosa sia una epidemia di polio».

La polio è scomparsa?

«È ricomparsa in Siria. Eliminarla è un obiettivo di salute globale perché, come vaiolo e morbillo, si trasmette solo da uomo a uomo. Perciò coi vaccini può essere annientata. Il vaiolo faceva 700mila morti l'anno in Europa, e ora sono dimenticati. Non vediamo più la morte di un bimbo con difterite. O non la vogliamo vedere, perché nel Terzo mondo succede ancora».

Il secondo motivo?

«Le notizie false. Per esempio quelle sul legame tra vaccinazione contro il morbillo e autismo, uno studio clamorosamente falso, il cui autore è stato radiato. Da ultimo c'è una concezione sbagliata, che si è diffusa, che sia meglio ammalarsi di una malattia infettiva, anziché prevenirla con il vaccino».

Non è così?

«No, è il contrario. Per esempio, nel caso del morbillo, il nostro sistema immunitario viene soppresso, e rimane tale per molto tempo. Così siamo esposti a infezioni da altri agenti: uno su venti dopo il morbillo ha una infezione polmonare».

Ma prendersi la malattia «naturale» non è meglio?

«No. È come fare una maratona il giorno prima della gara. L'allenamento migliore del sistema immunitario sono le vaccinazioni. Sono come una assicurazione sulla vita».

Addirittura?

«In generale, tutta l'immunologia lo è, per l'umanità. Dovremo sempre confrontarci con nuove minacce, microbi, virus e batteri nuovi, che cambiano: si pensi a ebola, a zika, alla chikungunya».

E i tempi?

«Quello che abbiamo fatto contro la dengue, o contro ebola prova che si può agire in tempi rapidi. Con ebola in un anno abbiamo fatto quello che di solito si fa in dieci».

Ma il nostro sistema immunitario funziona bene?

«A me piace pensarlo con due metafore. Una è un'orchestra: molto complessa, gerarchica, con ruoli precisi, di cui non conosciamo neppure tutti gli orchestrali. E che però dà armonia, perché lavora sempre, tutti i giorni, tutto il giorno».

Come fa?

«Nel nostro corpo ci sono microbi in quantità cento volte superiore a quella delle nostre cellule. Questi microbi ci accompagnano e addestrano il nostro sistema, che li deve tenere sotto controllo, sempre. L'altra metafora che uso è quella di un esercito».

C'è una guerra dentro di noi?

«A volte ne siamo consapevoli, come quando ci viene la febbre. Ma il nostro sistema fa guerre nascoste ogni giorno, a ogni minuto, e ogni giorno muoiono cento milioni di soldati della nostra fanteria, i neutrofili».

Perché è lo scienziato italiano più citato e influente a livello internazionale?

«Credo di avere dato un contributo soprattutto nella scoperta delle molecole dell'immunità e dei modi di funzionamento del sistema immunitario e nel riconoscere e spiegare il rapporto fra sistema immunitario e cancro, in particolare per quella che, nel nostro corpo, si manifesta come infiammazione. Oggi l'immunologia è la nuova frontiera della lotta al cancro».

Perché tanti immunologi hanno vinto il Nobel?

«Per una serie di scoperte che hanno cambiato la salute del mondo, a prezzo bassissimo. Un vaccino costa un dollaro e dà un risparmio di dieci dollari in spese sanitarie. È una delle cose più convenienti della medicina e della storia».

E perché è così citato negli studi?

«Alcuni miei studi, come quelli sui macrofagi, i natural killer del sistema immunitario, poi hanno avuto applicazioni trasversali. Per esempio hanno scoperto che queste bellissime cellule, a cui ho dedicato la mia vita, sono centrali anche nel meccanismo dell'obesità».

Solo per questo?

«Siamo una comunità abbastanza piccola. E poi c'è stata la grande lungimiranza delle agenzie che ci hanno finanziato. Nel mio caso l'Airc, a cui devo tutto».

Fa ancora ricerca?

«Certo. E la farò fino a che avrò i finanziamenti della Commissione europea e delle charity, come l'Airc e Telethon. Ho il mio gruppo qui all'Humanitas dove, oltre a quattro marescialli, sono quasi tutti giovani sotto i 31 anni, da tutto il mondo».

Come ha creato questo ambiente?

«Grazie agli investimenti di Humanitas nella ricerca scientifica, innanzitutto. E poi ho la fortuna di avere collaboratori meravigliosi, a partire dai miei tecnici.

Pensi che uno, Giuseppe Peri, che lavorava con me dagli anni '70 ed è morto di Sla, da malato continuava a occuparsi del disegno dei laboratori. Ecco, queste persone sono il grande patrimonio di questo Paese, per la loro dedizione, e una capacità di fare straordinaria».

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