nostro inviato a Pechino
Ci sono i forzati del remo che non vedono la moglie dieci mesi lanno ma solo la schiena dei compagni di regata e ci sono i ragazzi dellantisergente Anastasi che sudano, lottano ma un paio di acquisti nella calca del mercato della seta li fanno volentieri. «Io però non avevo voglia di farmi tirare da una parte e dallaltra al silk market, così sono andato a vedere la città proibita». Andrea Anastasi ha le idee chiare in campo e fuori. È un signore brizzolato che da ottobre allena gli azzurri, che poco prima ha vinto il titolo europeo con la Spagna, che anni prima, a Sydney 2000, alla guida della nostra nazionale aveva portato comunque a casa un bronzo. Insomma, uno che ci capisce, che sfrucuglia tabelle e schemi, ma che lascia vivere. «Perché da giocatore non mi piacevano le imposizioni
Se durante la carriera ho mai trovato un allenatore che facesse come me adesso? No, mai. Per questo quando lo sono diventato ho applicato subito un nuovo metodo. Bisogna dirlo: lo sport è o può diventare una prigione dorata, le Olimpiadi di più. Basti pensare che il tanto decantato villaggio ha i soldati tuttattorno e il filo spinato. Penso che i ragazzi allinterno abbiano bisogno di staccare. Mi dicono che dovrei sentire la responsabilità di guidare lunica squadra azzurra ancora in corsa ai Giochi, ma non sento alcuna responsabilità, provo solo onore, un grande onore».
Non male per un gruppo che alla vigilia, parole di Anastasi stesso, aveva detto «Nessuno al mondo pensa che lItalia sia in grado di andare a podio». Invece se lo giocano nonostante gli infortuni a raffica e i problemi a metter su di fretta un gruppo come si deve. E se lo giocano senza tensioni. «In questi giorni io e i ragazzi abbiamo lavorato duramente ma ci siamo anche presi i nostri spazi. Sono andato a vedermi la finale dei 100 metri, alcune partite di tennis che sono la mia passione, ho persino trovato lo spazio per fare del piccolo turismo. E così i ragazzi. Volevo che si distraessero, che cambiassero aria: temevo che lOlimpiade diventasse per loro solo una prigione. Alcuni non so neppure dove siano andati».
Lantisergente Anastasi è una rarità in questi giochi di cinesi e cinesine quasi torturate per la gloria del Paese, di ragazzi che non escono mai dalla vasca pur di nuotare e nuotare, di vogatori che remano e basta, di lottatori che capitombolano trecentosessantacinque giorni lanno. Per non parlare dei tiratori che ogni santo giorno che Dio manda in terra mettono la propria vita al centro del bersaglio.
Lantisergente Anastasi e i suoi boys no. Racconta: «Gli sportivi hanno orari per tutto: per alzarsi, per mangiare, per dormire e per allenarsi. Io per indole non sopporto le imposizioni, per cui non voglio che la squadra viva o provi sensazioni simili. Mi limito a indicargli gli orari dellallenamento, del pranzo e poi stop, so che arrivano, magari in ordine sparso, mica come altri in fila per due tipo i cinesi. Non gli controllo la dieta, non so nemmeno che cosa mangino. Lo faccio perché credo nellautomotivazione dellatleta, perché ritengo che le troppe imposizioni, soprattutto per gente come noi italiani, vadano a ledere e limitare le naturali capacità creative dellatleta. Mentre io li voglio creativi in campo
Del resto mi accorgo che loro con me si sentono protetti: forse perché mi limito a guidarli, a conoscerli, a sapere che cosa mi può dare uno in un determinato frangente e che cosa laltro
È vero, ho dovuto creare questo spirito di squadra in fretta e furia, ma credo proprio che la strada sia stata tracciata».
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