Anche Sciascia contro i tromboni inquisitori

di Vittorio Sgarbi
Sciascia, mafia, politica. Ci sono molti modi per travisare la lezione di Sciascia, come anche quella di Benedetto Croce: uno è soprattutto, su temi così caldi, richiamare soltanto una parte di un pensiero complesso e, spesso, spigoloso, non rassicurante. Ho frequentato e amato Leonardo Sciascia, e ho avuto il privilegio della sua considerazione per il mio lavoro; e l’ho visto aggredito, vilipeso, insultato per non essersi accomodato in posizioni che, in modo unilaterale, qualche benpensante vuole attribuirgli per addomesticare le sue considerazioni intransigenti. Qualcuno scrisse addirittura: «Certo, caro Sciascia, vivere nella tranquillità bucolica delle campagne racalmutesi, è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Certo, così vivendo, si rischia molto meno: e si diventa, a poco a poco, dei quacquaracquà».
Cosa aveva detto di così clamoroso, denunciando quelli che altri avrebbero chiamati «professionisti dell’antimafia»? «Il coordinamento antimafia? A occhio e croce mi pare che coordini interessi politici e stupidità... Sulla lotta alla mafia si è costruito un potere che non tollera critiche». E ancora: «Io simpatizzo con il poliziotto, e cioè con l’investigatore, che non è l’Inquisitore ma uno che cerca la verità di fatto, al di là dei pregiudizi». Molto chiaro. Ma, per alcuni, io la lezione di Sciascia non l’ho capita o non l’ho voluta capire. Le parole che ho citato sono inequivocabili. E conducono a una negazione del primato dell’etica intesa come governo dei buoni in quanto tali. In tal senso Sciascia rivendicava l’autonomia della politica dall’etica. Intendeva evidentemente, evocando Benedetto Croce, non che il fine giustifica i mezzi, ma che la sfera della morale non può occupare lo spazio della politica.
Il continuo richiamo di molti alla questione morale è evidentemente un alibi. Diversa cosa è invece che la politica assuma un valore etico, in quanto visione ed espressione di capacità. È proprio quanto, letteralmente, afferma Croce in un passo indimenticabile sull’«onestà politica» in Etica e Politica pubblicato in questa pagina. Queste così lucide e puntuali argomentazioni dovettero essere ben note a Sciascia e non sono in contraddizione con quanto lo scrittore siciliano scrive in Nero su nero: «Uno scrittore dovrebbe sempre poter dire che la politica di cui si occupa è etica. Sarebbe bello se potessero dirlo tutti. Ma che almeno lo dicano gli scrittori».
Una buona politica è in sé etica, ed è la ragione per la quale l’uomo che interessa a Sciascia è quello di Montaigne e non quello di Pascal. Il richiamo alla coscienza morale, cui l’uomo non può rinunciare, non vuole dire rifiuto della politica per la posizione che rappresenta l’Adelchi manzoniano: «Non resta che far torto o patirlo». Non è certo la rassegnazione che Sciascia chiede al politico, ma la verità senza maschere, senza illusioni: «Questo è un paese senza verità, e bisogna rifondare la verità se si vuole rifondare lo Stato». Per questo, mi sembra chiaro, non gli piacevano i professionisti dell’antimafia. Ecco il ribaltamento tra etica e politica, ecco quello che Sciascia combatteva, «perché l’antimafia può diventare strumento di potere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando».


Io, infatti, continuo a chiedermi come mai nessun professionista dell’antimafia abbia combattuto con me gli interessi mafiosi nello sporco affare dell’energia eolica che minaccia tutte le regioni meridionali. Ma qui, invece di Sciascia, bisognerebbe ricordare Cesare Brandi e inseguire il nesso non più fra etica e politica, ma tra verità e bellezza.

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